Operazione verità sui pregi del Jobs Act
Perché gli sproloqui sulla “precarizzazione” mettono in fuga il lavoro
A tutti coloro i quali in questo inizio, vagamente demenziale, di campagna elettorale fanno a gara a chi abolirebbe più riforme, c’è da rivolgere una preghiera. Anzi, una richiesta pressante: lasciate stare il Jobs Act. Piantatela con il capovolgimento della realtà su una legge che, se certo può essere migliorata, e soprattutto potenziata, ha contribuito finora a ridurre di due punti il tasso di disoccupazione generale – dal 13 all’11 per cento, il che costituisce una percentuale di diminuzione del 15,4 – e di 11 (riduzione di un quarto) di quella giovanile. E a innalzare il tasso di occupazione al 58,4 per cento, record da quando viene rilevato, cioè dal 1977. Dunque basta con le assurdità in stile Susanna Camusso, Pier Luigi Bersani, Cesare Damiano e altri Liberi e uguali sulla “precarizzazione del lavoro”.
Basta con la demenziale promessa di Luigi Di Maio di reintrodurre l’articolo 18. E basta anche con le capriole abolizioniste di Silvio Berlusconi. Chi ha memoria sa che Forza Italia non votò la riforma, dopo averla definita (Mariastella Gelmini) “il nostro programma”, in quanto la giudicò troppo timida. Sa soprattutto che fino ad allora i governi più innovatori in materia di lavoro erano stati proprio quelli del Cav., con Roberto Maroni – leggere in proposito la sua fondamentale intervista sul Foglio di ieri – con Maurizio Sacconi, con il compianto Marco Biagi. A smentire le frottole basta l’analisi dei dati sull’occupazione pubblicati di recente dall’Istat. Da marzo 2014 a novembre 2017 gli occupati sono passati da 22,244 a 23,183 milioni: più 939 mila. Tra questi però gli autonomi si sono ridotti di 201 mila unità; di conseguenza i dipendenti contrattualizzati sono cresciuti di 1,139 milioni. Il cavallo di battaglia degli abolizionisti è che si tratta “in stragrande maggioranza” di contratti a termine: ebbene, questi sono oggi 2,909 milioni, mentre i rapporti a tempo indeterminato sono 17,877 milioni. Il rapporto è di uno ogni 6,1 rispetto a uno ogni 6,4 pre Jobs Act: differenza 0,3. E questa la chiamereste “macelleria sociale” per dirla con la Cgil?
I contratti a tempo determinato sono aumentati di 659 mila rispetto a quattro anni fa, quelli a tempo indeterminato di 481 mila: ma dove è la precarizzazione se tutti e due gli indicatori sono positivi? E’ verosimile piuttosto che il maggiore aumento dei contratti a termine (178 mila) abbia in gran parte assorbito la riduzione dei lavoratori autonomi; tra i quali si sono spesso annidate forme di precariato autentico a cominciare dalle finte partite Iva. Soprattutto: a fronte di un incremento degli occupati che corrisponde al 4,2 per cento, i dipendenti a contratto, direttamente interessati dal Jobs Act, crescono del 6,8, cioè di oltre un terzo in più. E la famosa precarizzazione? Prima del Jobs Act i contratti a termine rappresentavano il 10,1 del totale degli occupati e il 13,4 dei dipendenti. Oggi rappresentano il 12,5 del totale e il 16,2 dei dipendenti. Aumenti di 2,4 e 2,8 punti su quote largamente inferiori al 20 per cento giustificano l’allarme democratico della Camusso e dell’opposizione? All’inverso, quattro anni fa i posti fissi con articolo 18 e reintegro obbligato erano il 65 per cento degli occupati e l’86,5 dei dipendenti; oggi in base al Jobs Act sono il 64,5 degli occupati e l’83,7 dei dipendenti: cioè rispettivamente lo 0,5 ed il 2,8 per cento in meno: sarebbero queste la disarticolazione e l’instabilità sociale prodotte dalla riforma? Se poi si guarda ai dati di Eurostat, l’Italia ha la metà di contratti a termine della Spagna, meno della Francia, quanti la Germania, più del Regno Unito. Con il piccolo particolare che in nessun altro paese d’Europa esiste il reintegro automatico del vecchio articolo 18. Dunque? Promesse di miglioramento del Jobs Act sono bene accette: a cominciare magari dalla sua estensione alla Pubblica amministrazione e dalla sottrazione alla burocrazia sindacale della gestione dei ricollocamenti. Sbandierarne l’abolizione – o anche la revisione senza chiarire di che cosa si parla ma adombrando il ripristino dell’art. 18 – significa solo bloccare le imprese che intendono assumere. Cioè mettere in fuga il lavoro.