Soliti tic e miraggi industriali
Se i cacciatori de La Perla non sono italiani imparate a distinguere i capitalisti
C’è un processo morboso nel giudizio mediatico degli investimenti esteri in Italia. Quando un’impresa viene acquisita da attori allogeni diventa il “gioiello che se ne va” e si va ad aggiungere all’elenco di quelle che se ne sono andate. Ultimo caso è il brand di intimo di lusso La Perla venduto da Silvio Scaglia, ex manager di Fastweb riabilitato dalla stampa a corrente alternata, comprato dal fondo olandese Sapinda dietro al quale c’è un sulfureo finanziere tedesco, Lars Windhorst, noto alle cronache per avere sostenuto lo schema di finanziamento delle compagnie aree in crisi comprate da Etihad, tra cui Alitalia. La lamentela mediatica è che anche La Perla se n’è andata, come La Rinascente (thailandese) o, più di recente, Italo (americana). Eppure non ci sono mai avvisi preventivi ai capitalisti italiani, con un bel gruzzolo in tasca, a intervenire per rilevare le perle dell’industria nazionale prima che qualcun altro le vinca all’asta del mercato. E’ difficile trarre lezioni generali da tanti casi singoli. Eppure il capitalismo italiano non brilla per dinamismo, preferisce la rendita, tant’è che in fatto di capitali di ventura l’Italia arranca. Se poi ogni volta che arriva uno straniero scatta il tic pavloviano della soluzione di sistema con banche o Cdp o Invitalia allora è meglio lo straniero. Può essere più bravo. Le aziende a controllo estero migliorano le condizioni di lavoro e innovano (vedi l’analisi Mediobanca sulla manifattura 2008-2016). Oppure può anche essere una chimera. Piombino docet. Ma in quei casi, chissà perché, la stampa considera i cavalieri bianchi degli eroi. Forse perché vengono chiamati “sceicchi” o “magnati cinesi”. Ma non è sempre un gioiello ciò che luccica.