Lo stato (sdentato) ruggisce ancora
L’interventismo del tandem Di Maio-Salvini rischia di scaricarsi su Cdp
Dei circa 200 incarichi pubblici che il prossimo governo dovrà rinnovare, i più caldi riguardano i vertici della Cassa depositi e prestiti. Il presidente Claudio Costamagna e l’ad Fabio Gallia terminano il loro primo mandato a fine maggio. Una breve dilazione è possibile se il nuovo ministro dell’Economia (da cui la Cdp dipende tecnicamente) e il presidente del Consiglio (dal quale dipende politicamente) non saranno al loro posto. Per il futuro Costamagna ha chiarito la disponibilità a restare “se non ci saranno indebite interferenze politiche”, altrimenti lascerà; quanto a Gallia il futuro è aperto e le opportunità non mancano. Ma l’indebita interferenza è già di per sé un concetto aleatorio nella cassaforte di Via Goito.
A maggior ragione rischia di diventarlo con i due partiti vincitori, 5 Stelle e Lega, entrambi fautori di un feroce interventismo statale. A cominciare, come ha annunciato Matteo Salvini, dal sud e da un non meglio precisato “progetto per Roma”. Il duo attuale della Cdp fu nominato nel luglio 2015 da Matteo Renzi all’apogeo del suo potere. Quello precedente (Bassanini e Gorno Tempini) da Giulio Tremonti. Il carattere istituzionale dell’esecutivo di Mario Monti e la debolezza di Enrico Letta permise loro di reggere alle pressioni di Palazzo Chigi: la più forte per entrare nell’Alitalia pre-Etihad. Invece la debolezza di Renzi dopo sconfitta nel referendum 2016 l’ha tenuta al giogo: Cdp è stata utilizzata in modo estemporaneo per situazioni critiche come Open Fiber (dove è coazionista con l’Enel) o per fare concorrenza in Ilva ai privati di ArcelorMittal. Ora evocata per Alitalia e per la rete Tim. Il pronto soccorso di Invitalia per le crisi aziendali locali, la Cdp ha avuto la tentazione di ripeterlo per le operazioni sistemiche. Mentre l’eclissi di Renzi ne aveva ridimensionato l’utilizzo come strumento coordinato di politica industriale, e poi la debolezza del governo Gentiloni ha fatto finire in un cassetto la riforma azionaria concepita dal ministro dell’Economia uscente Pier Carlo Padoan: il cosiddetto piano Capricorno, con il conferimento alla Cdp delle quote di Enav, Eni, Poste, Enel e Leonardo, e la cessione a soggetti e fondi istituzionali di circa il 30 per cento del capitale dellaCassa.
Un esecutivo Di Maio-Salvini ne rilancerebbe il ruolo pubblico diretto, a cominciare dall’Alitalia, sulla cui cessione sono in corso riflessioni da parte dell’esecutivo uscente, e dalla rete unica a banda ultralarga. “Lo stato innovatore” è del resto il titolo del saggio più noto di Marianna Mazzucato, il cui pensiero è vicino a quello di Andrea Roventini, ministro dell’Economia annunciato da Di Maio. La tesi è che solo il Tesoro, ovvero i contribuenti, “è l’imprenditore più audace, prolifico, proiettato sulla ricerca”. Si tratterebbe piuttosto di un ritorno all’Iri, in piena concorrenza europea, con un debito monstre, tasse altissime (che i vincitori promettono di ridurre). A diciotto anni dalle esequie dell’Iri doc, lo stato (un po’ sdentato) ruggisce ancora.