Ma come fanno questi populisti spendaccioni?
Impossibile aumentare il debito controcorrente rispetto al resto d’Europa
La Commissione europea dice di non volere entrare nel processo democratico italiano, né chiede riforme impopolari, ma invoca politiche responsabili di gestione del debito. Ieri Pierre Moscovici, commissario Ue agli Affari economici, è stato rispettoso sul futuro governo e programma. E ci mancherebbe. Moscovici è anche uno di quegli “eurocrati” dei quali Matteo Salvini e Luigi Di Maio si fanno scudo per mascherare l’irrealizzabilità delle loro promesse. Così il debito che non è stato creato a Bruxelles ma che grava sulle tasche dei contribuenti di oggi e di domani, pare una variabile indipendente rispetto, per dire, alla flat tax al 15 per cento, cavallo di battaglia della Lega, al reddito di cittadinanza che è fruttato la vittoria ai 5 stelle, all’abolizione della legge Fornero obiettivo di entrambi.
Solo questi tre punti costerebbero secondo Banca d’Italia, Inps, Ufficio parlamentare di bilancio e altri istituti indipendenti, 150 miliardi l’anno: il 9 per cento del pil. In un’intera legislatura 750 miliardi di debito aggiuntivo, il che ci renderebbe il paese più indebitato del mondo, scavalcando il Giappone, con la differenza che i nostri titoli di stato sono per oltre un terzo in mani estere. Altro che “superamento temporaneo del 3 per cento di deficit come Spagna e Francia”.
I populisti fingono di ignorare che Parigi è appena rientrata sotto la soglia limite, con un debito di 36 punti percentuali inferiore a quello italiano; quanto a Madrid in otto anni ha ridotto il disavanzo dall’11 al 3 per cento ricambiata da Standard & Poor’s e Fitch con il ritorno del rating in zona A (Moody’s si pronuncerà il 13 aprile). Così è vero che per ora i mercati stanno calmi e lo spread è stazionario intorno ai 130 punti, ma la Spagna che un anno fa era alla pari con l’Italia oggi è 50 punti sotto, e il Portogallo è sceso da uno spread triplo a 10 punti meno.
Il mood del tandem Di Maio-Salvini è di lasciar presentare il Documento di economia e finanza al governo uscente, affidando a una “commissione parlamentare speciale” i propositi, annacquati, per tranquillizzare i loro elettori. Magari con un “nome terzo” a cui far fare un giro da capo del governo: una furbata per presentarsi immacolati a chi li ha votati. Nel frattempo il resto del mondo non sta ad applaudire. Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e candidato a succedere a Mario Draghi alla Bce, chiede di anticipare al 2019 il primo rialzo dei tassi.
Christine Lagarde, francese, direttrice del Fondo monetario internazionale, vede la crescita dell’economia mondiale in rallentamento nei prossimi anni, “e va riparato il tetto per i giorni di pioggia” attraverso la creazione di un fondo comune europeo con vantaggi e obblighi reciproci. In entrambi gli scenari per il populismo italiano si prepara il ritorno alla realtà: o smentisce se stesso, oppure è pronta la via d’uscita dall’euro. Decisa non dal referendum stile Di Maio, ma dal resto d’Europa.