Gli odiosi applausi per i guai di Bolloré
Italia e Francia hanno in comune l’odio per il bretone e una giustizia col timer
Dopo rivalità secolari italiani e francesi sono finalmente d’accordo su qualcosa: disprezzano Vincent Bolloré. All’indomani dell’inchiesta per corruzione negli affari della logistica in Africa occidentale, il cuore del Groupe Bolloré, conglomerato da 14,8 miliardi di euro, le ricostruzioni di stampa hanno toni duri pure se moderati dal rituale “présumé” (presunto) reato.
L’atteggiamento della stampa italiana deriva da mesi di campagna anti francese per la contesa in Tim tra Vivendi di Bolloré – passata in modo tattico al figlio Yannick la settimana scorsa – e il fondo americano Elliott con cui i grandi media si sono schierati salutandolo come salvatore dell’“italianità” della compagnia telefonica e della sua rete, per la quale la Cassa depositi e prestiti, il governo uscente e tutti i partiti coltivano ambizioni di ri-nazionalizzazione.
Il Corriere della Sera ricorda le parole fuori posto di François Hollande (“è un integralista cattolico. Non sopporta che si attacchi il Papa o la religione. Quelli che non hanno diffidato di lui sono morti”) e ovunque abbondano i soliti appellativi per il “finanziere bretone” (“squalo”, “raider”, “pirata”). Il quale, dopotutto, da trent’anni conduce le battaglie finanziarie allo stesso modo: scalate al limite dell’Opa, occupazione di cda e inversioni di rotta. Idem in Tim. Ci sono stati errori che hanno fatto perdere il 35 per cento al titolo ma Vivendi è un operatore mediatico che ha bisogno di una compagnia telefonica. Mentre Elliott ha offerto una graduale ma non totale visibilità sulle sue intenzioni (comunque le telco non sono la sua tazza di tè).
E così i media scavano oltre le (presunte) tangenti transitate un decennio fa dall’agenzia pubblicitaria Havas per puntellare l’ascesa a politici di Togo e Guinea e così ottenere concessioni portuali. Ma sorvolano sul perché uno dei sistemi giudiziari più lenti d’Europa, quello francese, abbia accelerato d’improvviso la lotta alla corruzione, prima considerata tabù e poco combattuta. Per di più in Françafrique dove il confine tra “mazzette” e “tasse” per fare affari purtroppo non è sempre chiaro. Così la polizia giudiziaria ha fermato l’11° uomo più ricco di Francia a Nanterre, periferia parigina, come accaduto a marzo al suo amico Nicolas Sarkozy con la “scoperta” di finanziamenti ricevuti dalla Libia di Gheddafi.
Bollò verrà rilasciato oggi se gli inquirenti non avranno prove schiaccianti. E se non le troveranno la narrazione l’avrà già fornita un libro carico di informazioni, “Vincent tout-puissant”, citatissimo oltralpe in questi giorni. Bolloré cade perché s’è consumata la rete di potere che l’ha protetto; effetto del cambio di regime macroniano. Gli avversari si sono fatti notare subito con la beffa di realizzare il suo sogno della “Netflix francese”. La Tf1 di Martin Bouygues ha appena stretto un accordo per trasmettere nel mondo i suoi canali tv attraverso la compagnia telefonica Free di Xavier Niel, editore del Monde, il primo giornale a dare la notizia di Bollò in sala interrogatori. Ci si può girare attorno quanto si vuole ma gli applausi per l’arresto di Bolloré non sono così diversi da quelli ascoltati a Palermo la scorsa settimana nel processo sulla trattativa. E quando ogni mezzo diventa lecito per spazzare via un nemico prima di battere le mani bisognerebbe pensarci due volte.