Da Tim a Fincantieri, l'isolazionismo è un gioco a perdere
Perché una difesa sciovinista e una scarsa proiezione ci penalizzano
“Love is a losing game”, l’amore è un gioco a perdere, cantava Amy Winehouse. E anche il protezionismo, viste le critiche degli industriali americani (e filo-repubblicani) contro i dazi voluti da Donald Trump che provocano ritorsioni da Europa, Cina e Giappone. Sulla scia dell’“America first” i sovranisti gialloverdi hanno accarezzato un protezionismo made in Italy. Prima Matteo Salvini contro “i barconi di riso asiatico”; poi ha cercato di portarsi avanti Luigi Di Maio annunciando, da ministro dello Sviluppo economico, di “riflettere” su misure “a difesa dei nostri prodotti”. Dalla Lega, però, che nell’agricoltura e nelle piccole imprese esportatrici ha la propria constituency, è venuto uno stop; e anche Sergio Mattarella, al Forum internazionale del vino, ha parlato di “improvvida stagione di dazi”.
Intanto le imprese italiane sperimentano la scarsa proiezione nazionale sulla propria pelle. Fincantieri ha perso una commessa da 25,7 miliardi per la fornitura all’Australia di 9 fregate Fremm: Camberra ha preferito l’inglese Bae Systems, che ha beneficiato del rilancio in chiave commerciale del Commonwealth al quale il Regno Unito si sta dedicando per compensare i danni della Brexit. Né ha giovato alla Fincantieri che le Fremm siano co-prodotte con la Francia, con la quale i rapporti sono al picco negativo (Parigi tratta separatamente la vendita di due navi alla Grecia). Idem per Tim, dove la conquista del cda da parte del fondo Elliott, accolto come un cavaliere bianco dal governo precedente in chiave anti Vivendi, non ha prodotto né migliore governance né valorizzazione di Borsa: dal 7 maggio il titolo si è svalutato del 25 per cento. E a perderci è anche la Cdp usata come clave. “Oh, che casino abbiamo combinato”, aveva scritto la grande Amy.