Una Lamborghini per credere
Quando essere “colonizzati” è un bene per tutti e per il made in Italy
Nel 1972 la Lamborghini, l’anti Ferrari simbolo della Dolce vita, fu ceduta all’apice del successo dal fondatore Ferruccio, minacciato dalle frange estreme del sindacato. Dopo essere passata in mani svizzere, canadesi, francesi, americane, indonesiane, malesi, e sfiorato la nazionalizzazione chiesta dalla Cgil, nel 1998 fu comprata dalla Audi. La casa tedesca l’ha ristrutturata e rilanciata e le vendite sono passate da poche centinaia a oltre 4 mila unità. Dopo avere evitato il trasferimento della produzione di Suv in Slovacchia, grazie all’accordo tra azienda e governo Gentiloni per migliorare le infrastrutture, tre giorni fa i dipendenti di Sant’Agata Bolognese hanno votato in un referendum un contratto integrativo mutuato dalla casa madre tedesca che prevede più tempo libero anziché aumenti di paga. Hanno potuto farlo essendo specializzati e ben retribuiti, mentre le assunzioni aumentano: 150 quest’anno dopo le 750 del biennio scorso. E’ un caso virtuoso di contrattazione aziendale, ma anche l’ennesima dimostrazione di come il passaggio a straniere non sia stato condotto con modi da conquistadores. Il rapporto 2017 di Mediobanca su 2.065 imprese italiane negli anni di crisi dimostra come l’acquisizione dall’estero produca benefici in tre aree strategiche: ritorno sull’investimento (raddoppiato), qualificazione del personale (sestuplicata), export. Sono invece peggiorati i giorni necessari all’incasso. Il rilancio ha riguardato marchi come Sanpellegrino, Gucci, Nuovo Pignone. Embraco e in parte Parmalat sono finora eccezioni, né c’è la delocalizzazione di massa contro la quale Luigi Di Maio minaccia ritorsioni. Caso mai si assiste al “reshoring”, il ritorno di impianti in Italia: e non certo per merito del nazionalismo grillino e della Cgil.