Tutti giù con Tim
Valide ragioni per dubitare dell’interventismo “strategico” della Cdp
Dal 7 maggio, insediamento dei nuovi vertici di Tim a seguito del ribaltone del fondo Elliott e della Cassa depositi e prestiti, e a danno di Vivendi che resta primo azionista ma in minoranza, il titolo ha perso in Borsa il 30 per cento, il triplo del calo di Piazza Affari. L’indice europeo tlc nello stesso periodo guadagna qualche punto. Nel cda di ieri sui conti del secondo trimestre 2018 (più 1,5 per cento i ricavi, Ebtda stabile a 4 miliardi), l’argomento è stato solo sfiorato. Tra le accuse alla precedente gestione francese c’era anche di non aver creato valore per i soci: Elliott e alleati, Cdp in testa, non hanno fatto meglio, anzi. Ma non pare oggi questo il maggior problema di Tim.
Al vertice – ed è un paradosso – c’è sempre Amos Genish, l’ad nominato da Vincent Bolloré e confermato da Elliott. Quanto al management non si sono viste grandi rivoluzioni. E’ cambiato l’ad di Tim Brasil e, in Italia, il responsabile per i rapporti con fornitori e dipendenti. Inoltre non si registrano passi avanti nella diatriba sulla rete a banda ultralarga con il governo italiano, il quale si trova anche lui con il piede in due scarpe, in Tim e in Open Fiber attraverso Enel, e dunque Cdp. Poco, mentre intorno infuriano concorrenza e takeover. I vizi di origine sono due: Genish non è solo al comando, condizione indispensabile (Marchionne dixit) per guidare un’impresa; il nazionalismo di questo come del precedente governo non si capisce da che parte vada, se verso il mercato o verso lo stato. Ieri il presidente dell’Agcom, Massimo Cardani, ha bocciato la separazione “non volontaria” (leggi esproprio) della rete Tim. Vedremo che ne pensano gli azionisti del governo dopo gli squilli di tromba di tre mesi fa.