Una nazionalizzazione silenziosa
Il rapido “rimpatrio” dei Btp ci espone all’incertezza politica isolandoci
Nazionalizzare, nazionalizzare, nazionalizzare. Ovunque si sente parlare di nazionalizzazioni dall’Alitalia all’Ilva. Si parla di industria e servizi. Eppure queste nazionalizzazioni, per ora, restano chiacchiere, che si ripetono da anni. E benché il governo grillo-leghista le possa rendere concrete, c’è una nazionalizzazione silenziosa che questo governo ha accelerato seminando incertezza sui mercati. Ed è quella del terzo debito più grande del mondo.
Secondo Banca d’Italia a maggio, quando il governo era in gestazione, ci sono state vendite di Btp da soggetti esteri per 33,4 miliardi. Li hanno comprati banche e assicurazioni italiane. I grandi investitori hanno cambiato le loro preferenze: l’incertezza ha spinto in alto i rendimenti per i titoli con scadenze di breve e di lungo termine. Vista l’ambiguità che il governo cerca di togliersi di dosso sulla permanenza nell’euro comprare Btp significa tenere in pancia un rischio più che un potenziale guadagno: il rischio di perdere l’investimento in caso di panico finanziario.
Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, è costretto a plurimi interventi pubblici per rassicurare i mercati. Con successo, per ora. Nel 2007, ricordava il Sole 24 Ore, circa metà dei titoli in circolazione era detenuta da stranieri. Dopo la crisi dei debiti sovrani è cominciato il rimpatrio. Ora il debito è per il 68 per cento in mano a residenti italiani, il 27 fa capo a investitori dell’Eurozona, il 5 a extra-europei. Questo lungo processo di nazionalizzazione del debito non è salutare come non lo è una eventuale accelerazione di cui vediamo i segnali. Sono serviti almeno gli ultimi sette anni, grazie all’azione della Banca centrale europea, lato politica monetaria e lato vigilanza, a sciogliere il circolo vizioso tra banche e stato. Riattivarlo può essere un rischio ulteriore.