Carige e lo sportello delle ipocrisie
Quanti strepiti per l’intervento (da vedere) sulla banca genovese se l’economia non va
Se il vicepremier Luigi Di Maio avesse un briciolo di onestà (intellettuale, s’intende) la pianterebbe di ripetere, a proposito di Carige, che “noi nelle banche non abbiamo messo un euro” – un salvataggio di cittadinanza, allora? – come ha fatto puntualmente ieri. Né solleciterebbe una nuova commissione d’inchiesta sul credito da affidare a professionisti del populismo come Gianluigi Paragone, l’ex conduttore della “Gabbia” e autore di “GangBank”, o Elio Lannutti, già presidente di Adusbef, entrambi senatori del Movimento 5 stelle. Sempre più incapace di passare dalla propaganda alla realtà (Carige, “trivelle”, Ilva, Tap, Tav; l’elenco si allunga) il vicepremier grillino agita sui social la coda di paglia attualmente calpestata soprattutto dal suo “popolo”, promettendo: “In commissione ne vedremo delle belle!”.
La (non) credibilità della maggioranza gialloverde non sta però tanto nella memoria delle intemerate a Montecitorio, luglio 2017, di Alessandro Di Battista contro “i compagni che regalano miliardi di quattrini nostri alle banche private”, nella pioggia di banconote lanciate da chi era allora all’opposizione, e neppure nella campagna a Siena del leghista Claudio Borghi, già scatenato sul fronte del risparmio tradito e del ritorno alla lira, oggi presidente della commissione Bilancio della Camera. Sta invece nell’imbarazzo ad ammettere che l’intervento del governo, predisposto in un Consiglio dei ministri serale lunedì, a garanzia della Carige è utile non tanto per la frottola della tutela dei cittadini quanto per non fare saltare un istituto che non avrebbe costituito un problema se i suoi azionisti avessero dato seguito agli impegni di ricapitalizzazione. E che tutto questo accade nella città, Genova, che la Lega non può permettersi di perdere.
Quali saranno effettivamente gli sviluppi dell’intervento governativo è da vedere e si limitano per ora a un comunicato dell’esecutivo e uno dell’istituto che parla di “iniziative fondamentali per il futuro della banca”, tra cui una garanzia statale su nuove emissioni obbligazionarie e “l’ipotesi di ricapitalizzazione precauzionale”, pur “evocata” dal Cdm, è definita “del tutto residuale”. C’è insomma un intervento governativo in potenza, non ancora dispiegato. La soluzione allo studio si deve alla rapidità con la quale, a differenza di un paio di anni fa, si sono mosse le autorità regolatorie: l’odiata Banca centrale europea e l’odiata Banca d’Italia, che la futura commissione Paragone o Lannutti vorrebbe presumibilmente mettere alla forca. La garanzia pubblica (studiata dal direttore del Tesoro Alessandro Rivera, altro nemico del popolo) copre innanzitutto le obbligazioni Carige, dopo che la mancata ricapitalizzazione dell’azionista Malacalza aveva fatto salire a un impraticabile 16 per cento l’interesse da pagare per un bond del fondo interbancario di tutela al quale partecipano i maggiori istituti di credito privati. In seconda battuta, la Banca d’Italia potrà offrire la liquidità per rafforzare il capitale. Infine potrà intervenire il Tesoro come azionista, a somiglianza di Mps, ma solo se Banca d’Italia non venisse rimborsata, e se non venisse trovato un partner forte, italiano o straniero. Tutto ciò con la strada tracciata dal commissariamento della Bce, cioè dal nuovo capo della Vigilanza Andrea Enria che il governo gialloverde non aveva voluto sostenere in quanto “euroburocrate”.
La messa in sicurezza di Carige ha richiesto tre settimane; quella di Mps dieci anni (il primo prestito risale a Giulio Tremonti, il secondo a Mario Monti, la nazionalizzazione a Pier Carlo Padoan); in mezzo c’è stata l’uscita di scena delle due popolari venete. Questo governo è insomma stato alla finestra perché non aveva strumenti (e forse capacità) per intervenire e, soprattutto, è stato un soccorso preparato da autorità sovranazionali che hanno fortunatamente possibilità di intervento. Altrimenti non sappiamo se ancora staremmo parlando di Carige al presente o al passato. Tanto a Genova quanto a Siena e a Vicenza ciò che è veramente fallito è il modello di banca locale, propagandato dai sovranisti come “amico del territorio”; modello nel quale l’Europa, la Banca d’Italia e i governi passati (tutti i nemici del cambiamento) hanno individuato il punto critico del nostro sistema. E domani magari toccherà alla popolare di Bari. Non solo. Il tempo gioca contro dal momento che un rallentamento dell’economia continentale è incombente e segnali recessivi si notano in Italia. Sarà meglio muoversi anziché farneticare di altre commissioni d’inchiesta, o di banche centrali del popolo, per dirla con Dibba.