Il declino è negli occhi dell'Istat
Un anno di stagnazione e un futuro demografico cupo segnano un bivio
L’anno bellissimo annunciato dal premier Giuseppe Conte si chiuderà, secondo il rapporto annuale dell’Istat, con una crescita del pil intorno allo 0,3 per cento, con una crescita che nel secondo trimestre “molto probabilmente sarà negativa”. Una crescita che, si legge nel rapporto 2019, sarà sostenuta soprattutto dai consumi delle famiglie, mentre “l’attività di investimento sembrerebbe destinata a decelerare in termini significativi a causa della persistente incertezza che grava sul quadro macroeconomico nazionale e internazionale”. D’altronde, durante il 2018, la decelerazione dell'attività industriale è stata “significativa” in quanto “a partire dalla seconda metà dell’anno, sono emerse valutazioni sempre più pessimistiche da parte delle imprese manifatturiere sulla consistenza del portafoglio ordini e aspettative sempre più caute degli operatori”.
Il rapporto presentato ieri è il primo firmato dal presidente Gian Carlo Blangiardo, uno dei massimi demografi italiani. La demografia è al centro dell’analisi anche in relazione al suo impatto economico. La popolazione italiana ha una quota di ultracentenari (15 mila) seconda solo al Giappone, la quota di over 65 è in crescita (al 23 per cento) mentre la fascia d'età 0-14 anni è statica (al 10). Il saldo tra le nascite (439 mila) e i decessi (633 mila) è sempre più negativo. La riduzione numerica e l’invecchiamento della popolazione appaiono scontati nei prossimi anni e “le conseguenze più rilevanti riguarderanno un’intensa riduzione della forza lavoro potenziale”. La popolazione in uscita sarà molto superiore a quella in entrata, con sei milioni di persone in meno in ingresso nel 2050 rispetto a oggi. Ciò avviene mentre è in corso una penuria di popolazione giovane con un saldo migratorio negativo con l’estero per cui in dieci anni hanno lasciato il paese 208 mila giovani, tra i 20 e i 34 anni. Per questo, per usare le parole di Blangiardo, dobbiamo decidere se “siamo (e saremo ancora) un popolo che guarda avanti e investe sul suo futuro o invece dobbiamo perlopiù sentirci destinati a gestire e a manutenere il presente”.