Not for business
Consigli alla World Bank per rivedere il giudizio sull’Italia guardando l’Ilva
E’ consigliabile che osservando l’Ilva la World Bank modifichi la sua metodologia per la redazione della classifica annuale Doing Business sulla facilità di fare affari per quanto riguarda l’Italia. L’Italia è passata dal cinquantunesimo al cinquantottesimo posto nella classifica. E’ stato l’anno del governo gialloverde, che certo ha demolito la nostra reputazione internazionale, ma l’ambiente per le imprese operanti su territorio italiano è a dir poco caustico da tempo. Al di là di asfissia burocratica e normative cangianti, la vicenda giudiziaria e politica dell’acciaieria a ciclo integrale più grande d’Europa dovrebbe convincere l’agenzia delle Nazioni Unite a segnalare agli investitori internazionali che il rischio di intraprendere un business qui è tanto elevato quanto quello ricontrabile in un paese sub-emergente.
Nella sede di Londra di ArcelorMittal, primo gruppo siderurgico europeo, saranno frastornati da quanto sta succedendo. Avevano deciso di investire nell’Ilva un anno fa e ora meditano di mollare tutto. Il primo partito politico, il M5s ha deciso ufficialmente di modificare le condizioni del contratto che l’azienda giudica essenziali per proseguire l’attività. Nell’agosto scorso il capo del M5s, Luigi Di Maio, aveva concordato con Arcelor che a fronte di 4 miliardi di investimenti (di cui 1,25 per l’ambiente) la società e i suoi dirigenti avrebbero avuto garanzia di non essere coinvolti in procedimenti penali nella fase di attuazione del piano industriale fino al 2023. Diverse parti dello stabilimento tarantino sono infatti state poste sotto sequestro dal 2012 in poi e, inoltre, le attività programmate di bonifica dei terreni del complesso aziendale potrebbero motivarne altri per reati ambientali.
La tutela legale verrà definitivamente eliminata a partire dai primi di novembre se, come pare, verrà votata dal Parlamento una norma che elimina l’immunità approvata in commissione Industria e Lavoro del Senato lunedì scorso. Anche per evitargli guai giudiziari l’ad della divisione italiana, Matthieu Jehl, è stato prontamente sostituito con Lucia Morselli, una manager esterna al gruppo (cosa inusuale per Arcelor che di norma promuove suoi dirigenti interni). Il M5s è il principale artefice del provvedimento, la sua missione elettorale e politica è quella di chiudere l’Ilva ed è condivisa da esponenti di governo come Mauro Turco nominato dal premier Giuseppe Conte sottosegretario alla presidenza del Consiglio come responsabile per la Programmazione e il coordinamento della politica economica. Il programma di Turco è definito: “Taranto può e deve pensare al suo futuro senza vederlo legato allo stabilimento dell’ex Ilva”, come ha detto al Foglio. Fosse solo un’opinione comune nel M5s, come noto, per un investitore estero qual è Arcelor sarebbe assurdo ma, forse, rimediabile. Tuttavia sembrano concordi anche gli altri partiti.
Il Partito democratico di Nicola Zingaretti ha sposato la linea del M5s avendo votato in commissione al Senato a favore dell’eliminazione dell’immunità penale per Arcelor – la quale aveva già detto di abbandonerebbe l’investimento in tal caso. La proposta è quella di rimediare con un ordine del giorno che impegni il governo a rimediare con una norma successiva. Ma è un palliativo. E’ lo stesso rimedio proposto dalla Lega in estate quando il M5s tentò a giugno, per la prima volta, di eliminare l’immunità per decreto. La Lega non fece un plissé ma oggi dall’opposizione accusa il governo di volere “uccidere la filiera dell’acciaio”. Altra propaganda. Dunque Arcelor intende investire nell’Ilva quasi quanto lo stato prevede di ricavare in legge di Bilancio attraverso nuove imposte e vecchie imposte maggiorate per finanziare la spesa corrente, eppure ha contro tutti: il primo partito di governo, i partiti in coalizione del precedente e di questo esecutivo, il governatore della regione Puglia, Michele Emiliano, il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, buona parte dei cittadini tarantini e anche alcuni lavoratori.
Perfino Matteo Renzi non sta alzando barricate dal nuovo partito Italia viva, eppure quando era segretario del Pd e presidente del Consiglio ha avuto il merito di iniziare il processo di ristrutturazione dell’Ilva e di lanciare quella gara internazionale poi vinta da Arcelor. Ora se le condizioni contrattuali dovessero cambiare è probabile che una revisione degli accordi in itinere porti a una nuova procedura di gara. Ma chi si presenterebbe? Difficile dirlo. Almeno dovrebbe sapere in quale paese opera. Per Carlo Calenda la traiettoria è chiara: “Il risultato delle scelte politiche, con la complicità di Renzi, porta all’inizio della fine dell’acciaio in Italia, con una grave e negativa ripercussione sulla percezione dell’Italia per gli investitori internazionali. Siamo come un paese africano, o peggio”, dice. Consigliamo alla World Bank di tenerne conto nel prossimo rapporto, siamo un paese “Not for Business”.