La chiusura è fuori dalla realtà
Tre bei paper su e-commerce ed export demoliscono il sovranismo economico
Chi ha paura della globalizzazione? E chi attribuisce all’e-commerce la causa del declino dei prodotti italiani? La ricetta sovranista ovviamente (come i no global di estrema sinistra), i cui profeti più accesi predicano il ritorno all’autarchia alimentare, e nei consumi in generale. Tre ricerche smentiscono il nazionalismo economico.
La School of Management del Politecnico di Milano nella 20sima edizione dell’Osservatorio eCommerce B2c (business to consumers) registra che nel 2019 le vendite online al dettaglio hanno raggiunto il record di 31,6 miliardi con un aumento record del 15 per cento. Risultato per la maggior parte (18,1 miliardi) attribuibile ai beni fisici. Soprattutto le vendite all’estero da siti italiani toccano i 4,4 miliardi, il 15 per cento del totale.
Un’altra ricerca di Assocamere e Unioncamere riguarda la crescita complessiva dell’export: sulla base degli ordini già presenti, sfiorerà i 500 miliardi nel 2020 e dovrebbe superare i 540 nel 2022. Nel quadriennio 2019-2022 il made in Italy accelererà soprattutto in oriente (Cina, India e Vietnam, tutti con aumenti del 7 per cento), nell’est europeo Russia in testa, e all’interno della Ue in Spagna e Portogallo. Anche in questo caso, oltre alle missioni di imprenditori e delle loro organizzazioni, è fondamentale il lavoro basato sulla rete.
Altri dati vengono da Confindustria Lombardia, con un sondaggio su 1.700 aziende italiane presenti oltreconfine: la quota dei ricavi dall’estero rappresenta ormai il 45,6 per cento del totale prodotto nella regione, in crescita di tre punti rispetto al 2015, e con una percentuale del 60,1 per le aziende maggiori. L’internazionalizzazione media è di 21 paesi serviti ma varia a seconda delle dimensioni (da nove paesi per le piccole imprese a 36 per le grandi). La Germania si conferma primo cliente, la Cina per la scelta di sedi produttive e la Russia è preferita per attività in prospettiva. L’export supera dunque il 30 per cento del pil italiano e in gran parte si muove su internet, che a sua volta consente ad aziende piccole e medie di raggiungere mercati finora riservati alle big.
È vero che il commercio tradizionale ne soffre: ma questo è un problema (italiano) di consumi non di globalizzazione digitale.