Un gran Di Pietro contro l'attivismo delle procure sul caso Ilva
Perché l’obbligatorietà dell’azione penale è una boiata pazzesca
Se si preoccupa persino Antonio Di Pietro, forse sull’Ilva di Taranto la situazione è davvero sfuggita di mano. “Tutti gioiscono perché è arrivata la magistratura – ha detto l’ex pm di Mani pulite a “Omnibus” su La7 – . Ma a parte il fatto che di regola la magistratura dovrebbe comportarsi come il becchino, dovrebbe arrivare quando il reato c’è stato e non quando non è ancora avvenuto, io aspetterei come vanno a finire le inchieste”. Di Pietro ha poi aggiunto, riguardo all’attivismo delle procure, di non aver “mai sentito parlare dell’articolo 499”, quello che riguarda il “nocumento alla produzione nazionale” che sarebbe stato “cagionato” da ArcelorMittal e su cui indaga la procura di Taranto: “Non vorrei fosse una forzatura”. E aggiunge che “quando un pm indaga per vedere se sto per commettere un reato” prima che sia stato commesso, forse significa che c’è già “un pregiudizio”.
La vicenda dell’acciaieria tarantina, che da crisi industriale si è trasformata in crisi giudiziaria, angoscia persino l’animo di un ex pm come Di Pietro, tanto da far vacillare la sua fede nel dogma dell’obbligatorietà dell’azione penale. Di certo c’è che la situazione è talmente intricata e contraddittoria che è difficile venirne a capo, con due procure distanti mille chilometri che intervengono in sede civile e penale per risolvere la più importante crisi industriale nata sette anni fa da un’inchiesta giudiziaria e riesplosa dopo che la politica ha eliminato la protezione legale che serviva a proteggere il piano industriale e ambientale proprio dall’intervento della magistratura penale.
Così, dopo l’eliminazione dello scudo penale, ArcelorMittal ha deciso di abbandonare lo stabilimento depositando a Milano una richiesta di recesso del contratto. Alla citazione della multinazionale, hanno risposto – sempre a Milano – i commissari dell’Ilva attraverso un ricorso urgente ex articolo 700 per impedire lo scioglimento del contratto che sarebbe avvenuto con l’intento di “recare il maggior possibile livello di devastante offensività”. L’attentato di ArcelorMittal consisterebbe nello spegnimento dell’altoforno 2, che però è stato imposto dal tribunale di Taranto su richiesta del custode giudiziario Barbara Valenzano (dirigente pugliese vicina a Michele Emiliano), proprio perché i commissari non avrebbero rispettato le prescrizioni. A questo punto però interviene la procura di Milano che, per evitare lo spegnimento dell’altoforno ordinato da Taranto, prima entra nella causa civile “ravvisando un preminente interesse pubblico” e poi apre un fascicolo contro ignoti per “verificare la eventuale sussistenza di ipotesi di reato”. Insomma, indaga non si sa chi per non si sa quale motivo. Allo stesso tempo, su denuncia dei commissari – quelli che secondo il tribunale sono inadempienti su Afo2 – la procura di Taranto ha aperto un’inchiesta sul “nocumento alla produzione nazionale”, una norma figlia del codice Rocco. E poi in simultanea, le procure di Taranto e Milano, ordinano le perquisizioni delle sedi di ArcelorMittal per acquisire elementi su diverse ipotesi di reato: aggiotaggio informativo, false comunicazioni al mercato e crisi pilotata secondo la procura di Francesco Greco, appropriazione indebita e distruzione dei mezzi di produzione secondo quella guidata da Carlo Maria Capristo. Alla fine, dopo il passo indietro della politica, il paso doble della magistratura – che inizialmente voleva far spegnere gli altiforni – ha lo scopo di tenerli accesi. Con l’obiettivo di costringere questa multinazionale, accusata di voler chiudere l’Ilva e danneggiare l’economia italiana, a continuare a gestire l’acciaieria che vorrebbe distruggere. In questa follia, ciò che manca è solo una terza procura che indaghi le altre aver “cagionato un grave nocumento alla produzione nazionale”. Lo stesso reato di cui viene accusata ArcelorMittal.