Cinque anni di inadempienze di commissari e governi sull'Ilva
L’incidente del 2015, la mancata messa in sicurezza, la delega alla magistratura. E oggi il conflitto giudice-pm
Roma. Il giudice del Tribunale di Taranto Francesco Maccagnano potrebbe essere indagato nella giornata di oggi dalla stessa Procura di Taranto per sabotaggio all’economia della nazione. Lo stesso reato per cui ha aperto un’indagine sulla presunta mancata produzione da parte di Mittal. Ma a leggere l’ordinanza emessa sull’altoforno 2 (afo2), vengono meno tutte le granitiche posizioni antigiustizialiste, e anche un po’ antisigilli, che ci siamo creati in un paese in cui la magistratura è entrata mani e piedi nella politica industriale, e non solo, decidendo le sorti di industria, economia, sviluppo e financo sovranità popolare. Una tendenza di cui la vicenda Ilva rappresenta un gigantesco paradigma. Ma nel mare magnum di una vertenza enormemente complessa, in cui s’incrociano siderurgia, giurisprudenza, lavoro, politica, ambiente in un insieme condito da abbondante tuttologia, si rischia di perdere il dettaglio, che è ciò che poi distingue il merito delle cose.
Nel 2015 c’è stato un incidente mortale sull’afo 2. La responsabilità ancora non la conosciamo, essendo il processo appena iniziato. L’impianto venne sequestrato, senza facoltà d’uso. Il 7 settembre 2015, dopo il sequestro, il tribunale emise un provvedimento di restituzione concedendo 3 mesi di tempo per effettuare delle prescrizioni necessarie, secondo il custode giudiziario Barbara Valenzano, per mettere l’impianto in sicurezza. Il governo con un decreto estese il tempo a 12 mesi. Sono passati 5 anni e quelle prescrizioni non sono ancora state ottemperate. Il che corrisponde a un grave rischio ancora oggi per chi ci lavora. E anche per il gestore, in questo caso Mittal, che si ritrova a mettere i lavoratori su un impianto sotto sequestro e il cui proprietario glielo ha affittato senza metterlo prima, e durante, in sicurezza. Sicurezza sui luoghi di lavoro che, come scrive Maccagnano, “è un prius e non un posterius”. Ora potremmo continuare a discutere dell’invasione della magistratura e avremmo ragione. Ad esempio che fine hanno fatto gli organi inquirenti che nel giro di ventiquattro ore a sirene spiegate da Milano e Taranto sono entrate in Ilva come in una puntata di squadra antimafia?
Il giovedì Mittal ricorre al tribunale civile di Milano, a ruota il venerdì la procura apre il fascicolo, il sabato mattina, quando non lavora nessuno tranne gli uffici giudiziari, il procuratore capo di Taranto si fa trovare in ufficio per accogliere a braccia aperte i commissari e il lunedì mattina arrivano finanza, carabinieri, Noe, Nas, Ispra e quant’altro in Ilva. Poi ci si lamenta della lentezza della giustizia e per sopperirvi si abolisce la prescrizione. Qui invece sono stati celerissimi. Per un’ipotesi di reato e indagati ignoti, tra l’altro. Rapidità che però d’un tratto si è spenta con il sollevarsi dell’acredine tra governo e Mittal, e il riavvio della trattativa. Ripartita proprio dopo l’intemerata giudiziaria. Da un anno di presenza di Mittal, solo all’annuncio della crisi, già nota dai bilanci, si è sentito l’olezzo di reato di sabotaggio all’economia della nazione per mancata produzione, quando la stessa procura, fino a qualche mese fa, provava ancora a intervenire per ipotizzati reati ambientali legati alla produzione (a febbraio impugnava il decreto sullo scudo penale). Si chiama obbligatorietà dell’azione penale, certamente, e avendo i cassetti vuoti l’esposto dei Commissari non poteva andarli a riempire. Parliamo degli stessi Commissari che sono gli ispettori sull’attuazione del piano ambientale e industriale, erano loro cioè a effettuare i controlli sul rispetto del cronoprogramma. E in caso di inadempienza il contratto prevede debbano rivolgersi a dei garanti già nominati, il prof. Gaspare Viviani e il prof. Michele Giugliano, quali arbitri che dovranno congiuntamente dirimere eventuali controversie relativamente alla corretta esecuzione del piano, e in caso di disaccordo tra i due arbitri in relazione alla questione controversa, la medesima viene rimessa ad altro arbitro unico nominato d’intesa tra le parti o, in caso di mancato raggiungimento di un accordo tra le stesse, al presidente del Tribunale di Milano.
L’ultimo incontro dell’osservatorio ambientale Ilva, quello che trimestralmente si tiene al ministero dell’Ambiente tra tutti le parti ispettive, Arpa, Ispra, commissarri, tecnici ministeriali, si è tenuto il 24 ottobre 2019. E in quella sede tutti, commissari compresi, hanno detto, come negli incontri precedenti, che i piani seguivano correttamente secondo cronoprogramma. Neanche una settimana dopo, il giorno successivo alla comunicazione di Mittal di cessione del ramo d’azienda, i commissari si sono accorti che il piano non era mai stato attuato e, anziché agli arbitri, si sono rivolti alla procura di Taranto. Mentre nessuno, né governo né procure, nell’ultimo anno ha vigilato sull’attuazione dei compiti che spettavano ai commissari. Ricordiamo infatti che Ilva in As attualmente esiste per gestire le cosiddette aree escluse, le aree cioè interne al perimetro dello stabilimento, ma non produttive. Sostanzialmente le discariche e le collinette ecologiche. Su queste i commissari da contratto avrebbero dovuto procedere alle bonifiche assumendo 300 tra i 1.850 cassintegrati in seno ad Ilva in As. E invece al momento stanno facendo solo le 40 ore di corsi di formazione di Fondimpresa per imparare a scrivere un curriculum e ad anno nuovo, forse, inizieranno quelli della regione Puglia che dal primo elenco girato tra gli operai prevedono corsi di cucina e giardinaggio.
Il governo in tutto questo periodo non si è preoccupato di controllare l’operato dei suoi commissari. E oggi invece li usa a suo scudo contro Mittal. Tanto che è stato il presidente Conte in persona ad annunciare, e seguire personalmente, la stesura del ricorso al tribunale di Milano di Ilva in As. Sostanzialmente difendendo il loro non operato. Ancora più bizzarra la posizione, che cambia a ogni sorgere del sole, di regione Puglia e comune di Taranto che, dopo anni a rincorrere tutti i tribunali possibili contro l’azione di Ilva e dei governi, oggi si ritrovano accanto in tribunale a sostenere i commissari che con quel ricorso chiedono proprio l’applicazione del contratto e del decreto del 2017 che regione e comune hanno impugnato al Tar con un ricorso ancora pendente, e che se dovesse passare annullerebbe anche tutta la fatica di questi giorni. In questi cinque anni i commissari hanno portato avanti Ilva, sostanzialmente per pagare gli stipendi, non ottemperando al cronoprogramma Aia 2012, i cui lavori inizialmente erano previsti entro 36 mesi, pur beneficiando dello scudo penale.
I 12 decreti sono serviti solo per prorogarne i tempi, e i costi. La Cedu ha condannato l’Italia per non aver attuato l’Aia, imponendo di farlo al più presto. Soltanto l’aver mantenuto la produzione ben sotto il limite dei 6 milioni di tonnellate consentite dalla valutazione del rischio sanitario ha fatto in modo che Ilva dal 2012 mantenesse le emissioni inquinanti ben al di sotto della soglia minima consentita, ma ben lontano dal punto di pareggio del guadagno. Si dirà che lo stato non aveva i soldi, ma in realtà i bilanci dell’amministrazione straordinaria sono omissis, e a Taranto da sempre si vocifera sulle grandi elargizioni e benefit di cui godeva la sfilza di dirigenti e consulenti nominati senza limite. Inoltre ammontano a 3,9 miliardi i debiti che ancora oggi i commissari devono restituire, a Banca Intesa, Eni, e le ditte dell’indotto, con cui sono in causa, e che ormai non ci sperano più. Nel frattempo in questi giorni grandi manovre in Ilva in As, dai cui uffici quasi sicuramente è partita la velina della finta lettera di Mittal per andar via con un miliardo: a qualche dirigente passato in As e messo un po’ in sordina non pare vero di poter tornare a pieni poteri, e scalpita. Oggi il giudice Maccagnano scrive nero su bianco: “Deve ascriversi ad Ilva in amministrazione straordinaria un colpevole ritardo nell’adempimento delle prescrizioni di cui al provvedimento della restituzione emesso dalla procura in data 7 settembre 2015”.
Inoltre come ben sottolineato da Marco Bentivogli, Maccagnano scrive anche che i commissari non hanno mai impugnato le ordinanze con cui il tribunale stabiliva i tempi del giudicato cautelare per l’attuazione delle prescrizioni. Ma se nel frattempo il custode giudiziario e la procura hanno trovato nuove convergenze con le posizioni del governo, per il giudice del Tribunale “ove accogliesse l’odierna istanza [di proroga], disapplicherebbe per un termine estremamente ampio un provvedimento cautelare destinato a prevenire la concretizzazione del rischio della verificazione di infortuni della stessa specie di quello occorso ad Alessandro Morricella l’8 giugno 2015… L’accettazione di un simile rischio per la sicurezza e l’incolumità dei lavoratori – se pur può dirsi ragionevole entro orizzonti temporali ben limitati – diventa palesemente ingiustificabile” concedendo altri mesi che, sommati ai precedenti, finirebbero per portare la concessione da 3 mesi “a 5 anni, 5 mesi e 6 giorni”. Maccagnano ripete più volte nella complessa e ben documentata ordinanza, che al suo ufficio tocca trovare l’equilibrio nella disputa assiologica tra diversi diritti costituzionalmente garantiti. Se invece uno vale più dell’altro questa è responsabilità che deve prendere la politica. Ciò che finora non ha fatto, delegando alla magistratura.
E’ da giugno che la situazione era precipitata, e governo, Parlamento e partiti hanno continuato a perdere tempo e fare danni navigando a vista, pensando di instaurare una trattativa con questa spada di Damocle sulla testa. In cinque anni Ilva in As, cioè i commissari, cioè il governo, non ha provveduto a mettere in sicurezza un impianto dopo la morte di un operaio. E c’è qualcuno che pensa che il governo oggi possa occuparsi di siderurgia, entrare in fantomatici cda, o addirittura fare da garante per la sicurezza, l’ambiente, il lavoro, l’economia e lo sviluppo di Ilva e del paese. Addirittura dopo aver raccontato per anni la fiaba delle piste da sci sull’altoforno, ora vuole imporre il raddoppio della produzione. E non si capisce come Mittal non riesca a vendere 5 milioni di tonnellate, e possano riuscirci invece Patuanelli e Provenzano. Con i soldi nostri. E con una grande innovazione tecnologica: i forni elettrici! Mentre a Linz da anni usano la plastica riciclata (del consorzio italiano Corepla) al posto del carbon coke nell’altoforno. Mittal dopo questa accoglienza farebbe bene a scapparsene a gambe levate. Poi se come dicono altri sindacalisti è la multinazionale che non ci piace, in Italia uno c’è che ancora oggi sa fare l’acciaio meglio di tutti. Resistendo nonostante tutto ad attacchi congiunti di politica e magistratura. E il primo forno elettrico lo ha acceso nel 1957.