La vicenda Ilva spiega i tanti limiti del nuovo attivismo dello stato padrone. Da tempo si sa che la mano pubblica, attraverso Invitalia, entrerà nel capitale dell’acciaieria di Taranto. La questione andrebbe risolta entro il 30 novembre, termine ultimo entro il quale ArcelorMittal potrà liberarsi dello stabilimento pagando solo una penale di 500 milioni. I tempi sono stretti, ma il governo non si muove perché, data la delicatezza della questione, aspetta le elezioni regionali di settembre in Puglia per non rovinare la campagna elettorale già complicata di Michele Emiliano. E qui emerge, gigantesco, il primo problema. Ovvero la certezza, già prima di cominciare, che la gestione pubblica dell’industria dipenderà inesorabilmente dalle pressioni politiche e dal ciclo elettorale. Quando le cose funzionano così, vanno per forza a finire male. Inoltre, non si sa se lo stato vorrà entrare nel capitale come socio di maggioranza o di minoranza. Ma già fa sapere che, in ogni caso, i patti parasociali stabiliranno che la governance dell’azienda resterà in mano ai Mittal che, essendo tra i più grandi produttori mondiali, a differenza dello stato hanno le competenze tecniche per mandare avanti un’acciaieria. Questa soluzione ha un doppio risvolto. Da un lato, lo stato entra come semplice partner finanziario, ma con la forza del potere politico. E l’esito è davvero paradossale se solo si pensa che il premier Conte aveva annunciato la “battaglia legale del secolo” contro Mittal e il governo ha più volte sostenuto che gli indiani avessero acquistato l’Ilva di Taranto allo scopo di chiuderla. Ora lo stesso governo mette i soldi nell’azienda dei Mittal per farla gestire a loro. Dall’altro lato però, questa decisione fa emergere la consapevolezza che lo stato non è in grado di farlo e non saprebbe neppure da dove iniziare. Viene così notevolmente ridimensionata l’epica dello stato imprenditore. Siamo, insomma, nella logica delle partecipazioni statali che hanno prodotto tanti debiti e poca innovazione.
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