Più Iri o più Gepi: qual è il modello per lo stato imprenditore?
Le partite Autostrade, Tim, banche e Ilva. Al momento sono due i manager di stato che si giocano la leadership: Palermo e Arcuri
Roma. Una nuova Iri o una nuova Gepi? A quale modello s’ispira il redivivo “Stato imprenditore”? Gli studiosi si dividono, intanto la mano pubblica muove già due leve: una guarda all’Iri e l’altra alla Gepi. La prima è la Cassa depositi e prestiti che prende pacchetti azionari in imprese strategiche (autostrade e telecomunicazioni, settori che facevano capo all’Iri fino agli anni ’90); l’altra è Invitalia che salva aziende in crisi se non proprio decotte, siano esse manifatturiere o banche come la Popolare di Bari, usando la controllata Mediocredito centrale Banca del Mezzogiorno. Una divisione razionale del lavoro? Non del tutto. Ad esempio Invitalia che entra nel capitale della ex-Lucchini ora Jindal e nell’ex-Ilva ora ArcelorMittal si lancia in un settore, quello siderurgico, storicamente più da Iri che da Gepi. Ma il reale non è sempre razionale.
La Cassa è guidata da Fabrizio Palermo, Invitalia da Domenico Arcuri che Giuseppe Conte ha nominato Commissario straordinario per la lotta alla pandemia. Due manager di stato i quali, stando alle voci di palazzo, ora competono anche per il primato. Nella prossima primavera scade il mandato di Palermo, fino a oggi nessuno lo insidia impegnato com’è in partite delicatissime. Alcuni segnali, però, mostrano un’ascesa di Arcuri: sarà il piglio con cui ha gestito prima le mascherine a prezzo politico e ora i banchi scolastici o saranno i meriti presso le genti di Puglia con l’operazione Popolare di Bari e quella in fieri dell’Ilva. Dai palazzi del potere spirano sempre venticelli rossiniani, tuttavia i dossier più scottanti si stanno ingarbugliando. Sulle autostrade il gruppo Benetton potrebbe indurre la Cassa depositi e prestiti a gettare la spugna. Ieri il consiglio di amministrazione di Atlantia ha deciso una doppia opzione: la vendita dell’intera quota dell’88 per cento del capitale tramite processo competitivo o, in alternativa, la scissione parziale e proporzionale con conferimento nella neo-costituita “Autostrade concessioni e costruzioni” che si quoterà in Borsa con l’uscita di Atlantia dal suo capitale. “Preso atto delle difficoltà emerse nelle interlocuzioni con Cassa Depositi e Prestiti”, spiega Atlantia, il processo punta a “pervenire in ogni caso, alla dismissione della partecipazione” detenuta in Autostrade per l’Italia “in coerenza” con l’accordo di metà luglio preso con il governo, mediante “un processo trasparente e di mercato e nel rispetto di tutti gli stakeholder”. Dunque, nessun aumento di capitale dedicato solo alla Cdp.
Restano inoltre da sciogliere due nodi che chiamano in causa il governo: gli investimenti di 3,4 miliardi di euro e la manleva chiesta dalla Cdp. Palermo non se la sente di gettare ingenti risorse senza la garanzia che non verrà ritenuto responsabile di guai che hanno origine nel passato. Siamo a un bivio, mentre si complica anche la rete unica. La Tim (della quale Cdp è azionista) va avanti collocando la propria rete secondaria in una società della quale detiene la maggioranza, mentre la sorte di Open Fiber (della quale Cdp è azionista) è legata alla scelta dell’Enel (l’altro socio). Il fondo australiano Macquarie offre 2,65 miliardi di euro per il 50 per cento in mano alla compagnia elettrica il cui ad, Francesco Starace, non ha fretta tanto che esaminerà la proposta solo l’ultimo giorno utile, il 15 ottobre. La Cdp vorrebbe la maggioranza superando l’attuale 50 per cento, Macquarie non è d’accordo, anche se offre alla Cassa una “governance maggioritaria”. Tattica negoziale? Fatto sta che sia nel caso Autostrade sia in Open Fiber Palermo non può decidere senza il sostegno aperto del suo principale azionista. Il mercato si prende le sue rivincite, lo stato dovrà pagare. Nel governo è prevalsa finora una linea ideologico-militaresca: cacciamo i Benetton, prendiamoci la Tim, facciamo la rete unica di stato; le salmerie seguiranno. Figuriamoci. Non è stato così nemmeno per Napoleone.
tra debito e crescita