Joe Biden, presidente degli Stati Uniti che per la prima volta dal 2005 daranno il maggior contributo alla crescita economica mondiale, soppiantando la Cina (Ansa)

il foglio del weekend

Le locomotive della speranza

Stefano Cingolani

Dalla Russia alla Cina e all’India. Tutti ci provano, ma dopo il cataclisma del virus il modello americano torna vincente

Le parole e le cose. Le parole danno un nome alle cose, le definiscono e con ciò le rendono comprensibili, attribuiscono loro un significato. Ma le parole sono anche una proiezione della mente, sono progetti, espressioni della volontà, in questo modo possono precedere e per molti versi rigenerare, ricreare le cose. Così è avvenuto per il vocabolo resilienza che ha segnato il 2020, indicando un percorso per chi agisce in ogni ganglio della società. Così è per la parola di questi mesi: speranza. Dopo un anno di pandemia, mentre il virus si adatta per sopravvivere, muta, fedele seguace di Charles Darwin, combatte i vaccini, li sopravanza, più rapido, più flessibile; mentre Big Pharma duella con i governi e la dura realtà ci mostra che il salto dal laboratorio all’officina è più arduo e lungo di quel che la propaganda consolatoria ci aveva promesso; mentre diventa ogni giorno più chiaro che non c’è immunità di gregge di fronte alla offensiva della proteina spike, quindi dovremo convivere con il Sars-Cov-2 e le sue varianti, ebbene dopo queste continue incertezze che cosa resta se non la speranza?

 

Tutti speriamo di vincere sia la guerra contro il Covid-19 sia quella contro la depressione (psichica ed economica, per lo più intrecciate l’una all’altra). La fine della pandemia dovrebbe precedere la ripresa, ma per uno dei tanti paradossi del reale, sembra avvenire il contrario. Sperano le Borse, sperano soprattutto che il boom del 2020 non diventi un rovinoso crac nel 2021. Hanno segnato un record dopo l’altro anche se il pil scendeva in picchiata. L’indice Dow Jones ha sfondato quota 32 mila, il 30 ottobre dello scorso anno era sceso a 26 mila. Lo Standard & Poor’s, che combina le 500 maggiori imprese quotate, era sprofondato a 2.237 ed è risalito a 3.945. Il Dax di Francoforte è passato da 9 mila a 14.578, il parigino Cac40 da 4 mila a 6.022, il Nikkei da 16 mila a 29.211, lo Hanseng di Hong Kong da 23 mila a 29.385. E l’Italia? L’indice Ftse-Mib è a quota 24.150 partendo da 16 mila. L’economia di carta e l’economia reale non sono mai state così lontane? Oppure l’economia di carta tiene a galla anche quella reale?

 

“Da quando è cominciata la pandemia”, scrive il Wall Street Journal, “gli investitori hanno dato per scontati gli effetti economici immediati e hanno puntato sull’atteso rimbalzo”. Sperano i re di denari, grazie alle Banche centrali che hanno aperto i rubinetti della moneta. Guai a chiuderli, sia pur di poco e premono sulla Federal Reserve e sulla Bce. Giovedì la Banca centrale europea ha deciso di lasciare invariati i tassi d’interesse e di accelerare nel prossimo trimestre l’espansione monetaria attraverso l’acquisto di titoli il cui ammontare comunque non dovrebbe superare 1.850 miliardi di euro. L’inflazione non è un problema, aumenta a un ritmo inferiore al 2 per cento (si prevede 1,5 per cento quest’anno e 1,2 nel 2022), la vera questione è, semmai, perché tutta la moneta stampata finora non ha spinto i prezzi più in alto. La spiegazione va cercata non nell’eccesso di liquidità, ma nella riduzione dei costi dovuta alla rivoluzione tecnologica e alla competizione globale.

 

Sperano i petrolieri, i quali dopo il crollo dello scorso anno vedono i prezzi risalire, nonostante la concorrenza delle fonti rinnovabili (sleale perché sussidiata dai governi). Il greggio è passato tra gennaio e oggi da 52 a 68 dollari al barile, spinto non solo dalla speranza, ma dai primi chiari segnali di ripresa della domanda. Sperano i minatori, i raccoglitori di terre rare, sabbie intrise di silicio, rocce gonfie di cobalto o di argenteo litio che scommettono su un mondo tutto elettrico in un futuro sempre più vicino e intanto estraggono le materie grezze per la rivoluzione digitale. Sperano i produttori di derrate agricole. La Fao aveva già rilevato una tendenza al rialzo lo sorso anno. La pandemia ha visto aumentare la domanda di beni alimentari, i prezzi sono cresciuti e con essi i guadagni. Le quotazioni salgono per grano, soia e mais: nel 2021 i prezzi di queste tre coltivazioni faranno registrare il maggior incremento tra le materie prime agricole, secondo quanto prevede un’analisi della olandese Rabobank, vera autorità in questo settore.

 

 

Sperano più di tutti i governi che si sono indebitati, convinti che prima o poi il denaro piovuto dall’alto verrà speso. I consumatori sono pieni di soldi, ma li tengono sotto il materasso, e non solo in Italia. Lo scrive l’Economist e dobbiamo credergli; del resto, lo sappiamo bene, è quel che facciamo tutti noi con piccole o con grandi somme. Spera l’Europa, dove i debiti sono elevati, ma i consumi restano ancora piatti. Spera di superare le sue lentezze, i conflitti interni tra paesi, la burocrazia di Bruxelles, gli sgambetti delle multinazionali dei vaccini. L’unica cosa certa è che non sarà il Vecchio continente a celebrare per primo il mondo nuovo. Secondo l’Ocse la crescita media sarà soltanto del 3,8 per cento, poco più della metà rispetto al trend mondiale. La Bce, dal canto suo, prevede uno sviluppo del pil nella zona euro attorno al 4 per cento, molto meno degli Stati Uniti e della Cina. L’Italia potrebbe fare un po’ meglio con un più 4.1 per cento, ma non riuscirà a recuperare il livello del 2019 anno in cui il prodotto lordo era vicino alla crescita zero.

 

Spera l’India diventata grande nei vaccini. Entro i suoi confini fabbrica il 60 per cento di tutta la produzione mondiale, grazie soprattutto a sei grandi aziende. Nelle ultime settimane sono state potenziate le catene di produzione per garantire la messa in commercio di un ampio numero di dosi. Secondo Deloitte, la multinazionale della consulenza, Delhi è destinata ad affermarsi come secondo produttore mondiale del farmaco contro Sars-Cov-2 dopo gli Stati Uniti. A fare la parte del leone è il Serum Institute, la più grande società produttrice di vaccini al mondo, arrivata a 70 milioni di dosi al mese; ora ha ottenuto la licenza per il vaccino AstraZeneca, che in India è stato rinominato Covishield, e ha stabilito una collaborazione con Novavax. Spera il presidente cinese Xi Jinping che vuole, disperatamente vuole, il ritorno alla crescita di 6 punti percentuali l’anno: garanzia di stabilità politica, prima ancora che economica, una cambiale in bianco firmata dal popolo con la moneta del popolo (renminbi) per il Partito comunista che guida la Repubblica popolare. All’assemblea nazionale (del popolo naturalmente) il primo ministro Li Keqiang ha annunciato che il prodotto lordo tornerà a salire al fatidico ritmo del 6 per cento. Per ora anch’essa è una speranza, sono solo parole intese come progetto, un viatico per il quattordicesimo piano quinquennale che prende le mosse proprio quest’anno. La crisi del 2020 aveva portato Pechino a rinunciare a fissare un obiettivo annuale. Dopo le misure di contenimento senza precedenti che hanno bloccato ogni attività, nel primo trimestre il prodotto lordo era precipitato del 6,8 per cento, poi era cominciata una lenta ripresa. Ma il tasso di crescita del 2,6 per cento registrato ufficialmente per la media dello scorso anno è il più basso dal 1976, anno della morte di Mao Zedong e ultimo della Rivoluzione Culturale, quando ci fu una contrazione dell’1,6 per cento.

 

A preoccupare gli analisti resta la debolezza dei consumi, colpiti dalla pandemia, che registrano la prima contrazione su base annua dal 1968, con un calo del 3,9 per cento nelle vendite al dettaglio nel 2020. La tendenza al ribasso è proseguita anche durante tutto l’inverno, continua invece lo slancio della manifattura soprattutto grazie alle esportazioni balzato a dicembre del 18,1 per cento. Gli investimenti fissi hanno segnato una crescita del 2,9 per cento nel 2020, al di sotto di un previsto +3,2, ma in accelerazione. La Cina, è questo il messaggio accolto dai mass media di tutto il mondo, è comunque l’unico paese a crescere mentre tutti gli altri arretrano. Sarà ancora lei la fabbrica del mondo, diventerà la locomotiva della ripresa? No, secondo le stime dell’Ocse. L’organismo parigino che raggruppa tutti i paesi industrializzati accende i riflettori sugli Stati Uniti. Spera Joe Biden che si è fatto approvare dalla Camera dei rappresentanti un mega stimolo di 1.900 miliardi di dollari. Il presidente vuole portare fuori dai guai quell’America lacerata che si trova a guidare, con un programma di espansione del welfare state e già si parla di sterzata a sinistra, come Obama più di Obama.

 

È il valzer delle speranze, pronto a trasformarsi in marcia trionfale o a svanire in una ebbrezza frenetica come la danza dei dervisci rotanti. E ancora una volta le parole assumono un potere proprio e i nomi diventano progetti. Tutti a Wall Street come in Main Street, nelle sale della Borsa di New York come lungo le strade del Far West, hanno atteso di ascoltare Warren Buffett dopo il suo lungo e allarmante silenzio. L’oracolo di Omaha ha 90 anni, si era fatto vaccinare in barba a Donald Trump (che non ha mai amato) e aveva atteso prima di prendere di nuovo la penna per firmare la lettera annuale agli investitori che da sessant’anni esprime il sentimento economico della intera nazione. Non si era fatto più vivo dal maggio scorso e la pandemia aveva colpito duramente il suo portafoglio il più gonfio e più bilanciato forse del mondo intero. Il 27 febbraio ha vaticinato di nuovo. “Mai scommettere contro l’America”, ha scritto e i più hanno inteso “mai scommettere contro di me”, perché quel che va bene a lui va bene anche all’America.

 

Lo si diceva a proposito della General Motors, ma ormai da tempo comanda la finanza anche se quella del mago di Buffett potremmo chiamarla finanza sana. La sua lettera è più di una speranza, è l’ottimismo della ragione. Si apre con una tabella che mette a confronto anno dopo anno dal 1965 al 2020 il risultato della Berkshire Hathaway, il veicolo per gli investimenti finanziari, e l’indice Standard & Poor’s: ebbene i guadagni medi annui della sua creatura sono stati del 20 per cento, quelli dell’indice la metà. Il capitalismo ha attraversato tre grandi crisi, negli anni ’70, nei primi anni ’90, nel 2008-2010, tutte considerate finali dal declinismo catastrofista. Invece… Autocelebrazione? Anche, ma soprattutto l’invito a guardare al medio periodo e non solo dall’oggi al domani. La caduta dello scorso anno, quando anche Buffett ha perso un bel po’ di quattrini, appare un brutto scivolone se si resta lungo il sentiero nient’affatto selvaggio dell’economia americana. “Sono quattro i miei gioielli”, ha scritto: le assicurazioni, le ferrovie (in particolare Bnsf, la più grande, della quale possiede il 100 per cento), Apple (con il 5,4 per cento Buffett è il primo azionista singolo) e l’energia. Altro che economia di carta, è un mix virtuoso che può servire da indicatore anche in Europa, soprattutto indica che la forza della economia americana, la sua resistenza, la sua resilienza e la sua ripresa, poggiano su basi solide.

 

Naturalmente il mega stimolo del governo mette benzina nel motore, ma sono i quattro pistoni sui quali punta Buffett a muovere la macchina: un vasto e robusto sistema finanziario, le infrastrutture, l’innovazione tecnologica, le fonti energetiche. Le speranze, così, diventano realtà: “Per la prima volta dal 2005 gli Stati Uniti daranno il maggior contributo alla crescita dell’economia mondiale soppiantando la Cina”, secondo il think tank Oxford Economics. Il rimbalzo americano sarà del 7 per cento, stima la Goldman Sachs, il pil americano è ancora un terzo più grande di quello cinese, quindi è chiaro che il suo contributo alla crescita mondiale sarà maggiore, spingendola verso un considerevole sei per cento. I dati macroeconomici sono il frutto di una maturazione che la Cina non ha raggiunto. Al contrario. Fattori demografici come l’invecchiamento della popolazione che riduce la disponibilità di capitale umano a basso prezzo e il rallentamento della produttività che aveva spinto il boom degli scorsi decenni, pesano sulle prospettive cinesi costringendo il potere politico ad accentuare la riconversione interna.

 

I piani quinquennali, tuttavia, sono progetti ai quali non corrisponde sempre una sostanza, sono parole che dovrebbero cambiare le cose, ma spesso non ci riescono. Sulla Cina continua a pesare lo stigma della pandemia se dopo la loro spedizione a Wuhan nemmeno gli ispettori della Organizzazione mondiale della sanità (organismo certo non ostile a Pechino) hanno capito le origini del virus e hanno fugato i sospetti. Gli Stati Uniti allo stato attuale hanno vinto la battaglia dei vaccini: quelli di Pfizer e Moderna sono per il momento gli unici davvero efficaci oltre che più innovativi. Un’ombra sempre più pesante cala su AstraZeneca. Per quelli cinesi bisogna fidarsi delle assicurazioni ufficiali. Quanto a Sputnik non si capisce, come sempre accade per quel che viene da Mosca, la differenza tra disinformatia e realtà. La distanza tra le parole e le cose è abissale là dove alberga la democratura. Nelle società aperte la doxa si fa epistème avrebbe detto Michel Foucault, l’opinione diventa conoscenza attraverso il fare, grazie alla possibilità di agire senza vincoli autoritari e verificare i risultati. Solo così anche la speranza può trasformarsi in realtà.

 

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