Editoriali
Un'altra plastica è possibile
Per ridurre l’inquinamento non servono tasse, serve nuova tecnologia
Due ministri, Giancarlo Giorgetti del Mise e Roberto Cingolani della Transizione ecologica, sono in guerra con la Commissione europea sulla direttiva 904 del 2019, detta Sup (single use plastic) che dal 3 luglio mette fuori legge alcuni usi delle plastiche non riciclabili. L’Italia aveva approvato la direttiva, potendo vantare aziende e tecnologie in crescita, ma ne contesta un’interpretazione restrittiva, il divieto per oggetti e imballaggi in carta con una sottile pellicola di plastica.
La difesa di un settore che impiega 50 mila addetti va bene purché nella logica di una trattativa e non della conservazione dell’esistente. Diversamente il rischio è ripetere gli errori fatti a suo tempo nell’auto (in buona compagnia di Germania e Francia) mentre incombevano le tecnologie ibride ed elettriche. Da quando big come Coca-Cola, Pepsi, Bacardi, Danone, Carlsberg hanno annunciato il lancio di bottiglie e contenitori completamente riciclabili si è capito che non era più questione di se o come, ma di quando. Anche perché si tratta di un’alternativa globale e certo meno inquinante alla plastic tax cui aveva pensato da noi il governo 5s-Lega.
L’Italia ha nella bioplastica una filiera in costante espansione con oltre 250 aziende e un fatturato in crescita a doppia cifra: imprese come Novamont, Bio-on, BetaLife, start up mentre anche l’Eni vuole entrare in questo settore. Ovviamente non ci sono ancora le dimensioni della plastica tradizionale, indirizzata non solo al largo consumo ma anche all’arredamento, ai trasporti, alla medicina. Ma la direzione è quella.
L’Italia poi è in lizza per la fetta maggiore dei fondi europei, purché li impieghi per rinnovare l’apparato industriale oltre che per molte altre riforme. Infine il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha appena invitato le imprese a evolversi e investire in tecnologie e dimensioni. Negoziare va bene, non vedere la realtà no. Diversamente Coca-Cola e altri compreranno all’estero (l’Asia ha già il 45 per cento della produzione mondiale) e a noi resterà, magari, la tassa.