Non solo Mps. Come rotolano le banche
Una storia di rovine lunga più di un secolo. Ma il rapporto con la politica resta ancora incestuoso e tempestoso
Uno schiaffo così Mario Draghi non se l’aspettava. E’ vero che ha seguito la trattativa tra Unicredit e Mps dietro il velo del ministero dell’Economia, lasciando lavorare l’intendenza, ma adesso tocca a lui piatire da Bruxelles un ennesimo rinvio. E c’è il suo profilo appuntito e il suo sguardo pungente dietro l’ammissione che la vendita per ora è impossibile: il capo azienda, Andrea Orcel, un banchiere d’affari super pagato, ha detto di no al governatore della Banca d’Italia che aveva guidato, sia pur dall’esterno, il riassetto del sistema bancario italiano con i ricchi matrimoni del 2007, e soprattutto al salvatore dell’euro. Uno smacco, non c’è che dire, più che un incidente di percorso.
“Perché stupirsi? C’era da attenderselo, a forza di evocare il manager, l’investment banker e altre diavolerie anglosassoni, a forza di predicare l’anti-politica anche quando si tratta di gestire il risparmio degli italiani garantito della Costituzione, si arriva a questo punto”, gongola l’homo republicanus, nel senso di Prima Repubblica, l’unica reale, dice lui, perché le altre sono solo ipotesi. L’argomento già circola e lo sentiranno ripetere Orcel, il direttore generale Alessandro Rivera e l’ad del Montepaschi Guido Bastianini, convocati dalla commissione bancaria del Parlamento, quella che ha tanto tuonato sui salvataggi degli anni scorsi (veri, presunti, mancati), da provocare una pioggia torrenziale. E sentiranno anche la tesi opposta, cioè che la politica vuole mettere le mani sulle banche e finalmente ha trovato chi ha avuto l’ardire di opporsi. In realtà da sempre, diciamo dalla formazione del Regno d’Italia, le banche sono state croce e delizia dei governi. Non è un’esclusiva italiana, sia chiaro, la Francia per esempio ha parecchio da insegnarci, ma oltralpe le tempeste arrivano, devastano e passano, qui sembrano non finire mai.
L’Italia unita sedeva su una montagna di debito pubblico, per lo più del Regno di Sardegna, che per sostenere la sua modernizzazione e le guerre d’indipendenza aveva dovuto emettere titoli da collocare a interessi superiori ai tassi sul mercato privato. Ne avevano fatto man bassa banche internazionali, soprattutto francesi, come il Crédit Mobilier dei fratelli Péreire o i Rothschild del rampo parigino. Subito dopo il 1861 erano nate come funghi banche italiane per il credito ordinario o per quello a lungo termine: gli investimenti nelle ferrovie, nei trasporti marittimi, nelle costruzioni erano il ramo d’affari più appetibile. Debito pubblico e infrastrutture, strettamente collegati, pendevano sul capo dei governi già allora. Gino Luzzatto (“L’economia italiana dal 1861 al 1894”, Einaudi) ha seguito le vicende della Banca Italo-Germanica nata e morta in un triennio il cui crac ricadde sul governo guidato da Giovanni Lanza (quello della breccia di Porta Pia). Il successore, Marco Minghetti, dovette imporre una stretta per far fronte a una crisi aggravata dalla situazione finanziaria dell’Italia già costretta a bloccare la conversione della lira e a imporre forti imposte (famosa quella sul macinato legata a Quintino Sella). Sarà Minghetti ad annunciare nel 1875 il pareggio del bilancio, grazie all’escamotage di aver scorporato i debiti contratti per le ferrovie.
Dalla destra storica alla sinistra, tra banche e politica i rapporti restano incestuosi e tempestosi. La nuova nazione cresce rapidamente, si modernizza, insegue i paesi più industrializzati anche grazie al capitale straniero e a un mercato interno fortemente speculativo. E’ rimasto leggendario lo scandalo della Banca Romana denunciato alla Camera dei deputati nel 1893 da Napoleone Colajanni ispirato a sua volta dall’economista Maffeo Pantaleoni. Il deputato siciliano rende noti i risultati dell’inchiesta condotta da Gustavo Biagini, alto funzionario del Tesoro, con tanto di elenco dei parlamentari e dei funzionari statali che avevano ottenuto prestiti di favore per chiudere gli occhi sull’operato del governatore Bernardo Tanlongo, il quale stampava titoli e moneta (la Banca d’Italia non era ancora nata) duplicando persino le serie dei biglietti messi in circolazione. Tutto ciò per coprire i catastrofici effetti della collasso edilizio, culminato nel 1889 e magistralmente raccontato da Emile Zola nel suo romanzo “Roma”. La speculazione innescata dalla gigantesca trasformazione dell’urbe per farne una vera capitale viene pagata con carta straccia. Il presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, è costretto alle dimissioni. Nel frattempo cadono i due principali istituti di credito ordinario, la Società Generale di Credito Mobiliare e la Banca Generale, trascinando nella polvere Torino, fino ad allora principale centro finanziario italiano. Un terremoto come pochi che segna un vero spartiacque. Dalla morte del vecchio sistema ne nasce uno nuovo, dotato di leggi e regolamenti più moderni, che prevedono di unificare nella nuova Banca centrale l’emissione di carta moneta. Cambia anche lo scenario politico, Giolitti torna in scena più forte di prima e segna un’era destinata a finire solo nel 1815 con la partecipazione alla Grande Guerra.
Il fascismo che doveva mettere ordine anche nell’economia sotto il tallone del nuovo stato totalitario, è scosso anch’esso da una catena di collassi bancari ben prima della crisi che, negli anni Trenta, sfocerà nella nazionalizzazione diretta o indiretta (attraverso l’Iri) delle grandi banche, e nella nuova legge ispirata a quella americana, assetto che nelle sue strutture di fondo sarebbe durato fino ai primi anni Novanta del secolo scorso. La crisi della Banca Italiana di Sconto segna i primi passi del nuovo regime. Nel 1904 era stata fondata la Società Bancaria Italiana per creare un terzo polo – favorito da Bonaldo Stringher, direttore generale della Banca d’Italia – e bilanciare così il potere della Banca Commerciale e del Credito Italiano. L’ironia della storia vuole che Intesa Sanpaolo abbia oggi in pancia la Commerciale detta Comit, e Unicredit sia la superfetazione del Credit, mentre riemerge il progetto del mitico terzo polo. Il crollo borsistico del 1907 mette fine a ogni grande piano e la “banca italianissima” viene salvata da un consorzio formato proprio dalla Comit e dal Credit garantiti dalla Banca d’Italia, per poi passare al gruppo francese Dreyfus, che diventa il punto di attrazione dei nazionalisti italiani i quali vogliono mollare la Triplice alleanza e accusano soprattutto la Comit, guidata dal tedesco Otto Joel, di essere la succursale degli Imperi centrali (non importa se Joel è ormai cittadino italiano). Non ricorda qualcosa? Non vengono in mente le polemiche di questi anni sulle banche italiane in mano straniere, le frecciate contro Jean Pierre Mustier quando era al vertice di Unicredit e contro Philippe Donnet che guida le Assicurazioni Generali? Altro che maestra di vita, la storia mostra spesso riflessi pavloviani.
Nel 1914 nasce la Bis (Banca Italiana di Sconto), primo presidente Guglielmo Marconi; grandi azionisti sono i fratelli Perrone proprietari del gruppo Ansaldo del quale la banca diventa la principale finanziatrice. Finita la guerra è lei a sobbarcarsi gli oneri per riconvertire l’Ansaldo, ormai concentrata sulle forniture belliche, finendo così per essere travolta: cadranno insieme la controllante e la controllata. A mettere a nudo dalla lontana Cambridge questa “sorellanza siamese” (come la chiamerà Raffaele Mattioli il gran capo della Comit) è Piero Sraffa, figlio di Angelo, che fu tra i fondatori del moderno diritto commerciale italiano. La Bis viene liquidata nel 1921, ai depositanti si rimborsa tra il 65 e il 75 per cento del valore depositato, ma la crisi e i suoi strascichi giudiziari si trascinano fino al 1926, coinvolgendo anche Benito Mussolini, che tra l’altro non aveva apprezzato (è un eufemismo) le analisi di Sraffa rientrato nel frattempo in Italia.
Nel dicembre 1922 poco dopo la marcia su Roma, il professor Angelo (di origini ebraiche) viene aggredito dalle camicie nere, il capo del governo esige che il figlio Piero ritratti i suoi articoli sulla crisi della Banca di Sconto e il rapporto incestuoso con l’Ansaldo, perché mettono in cattiva luce l’Italia. Il giovane economista rifiuta e torna in Inghilterra dopo un breve periodo a Parigi. Ma proprio quel nesso si fa sempre più inestricabile, fino a trascinare nel baratro banche e grandi imprese nei primi anni Trenta sotto i colpi della Grande Depressione. L’intero sistema era ormai diventato come il mostro mitologico che si mangia la propria coda, catoblepismo l’avrebbe definito nel 1962 Mattioli concludendo con toni apocalittici: abyssus abyssum invocat.
Il nuovo equilibrio sotto l’egida statale trasforma il sistema bancario in una “foresta pietrificata”, lo scrive Giuliano Amato il quale, arrivato alla presidenza del Consiglio nel 1991, avvia un processo di privatizzazione parziale (attraverso le fondazioni bancarie) che dura per tutto il decennio prolungandosi in sostanza fino alla grande crisi finanziaria del 2008-2010. Non che prima non ci fossero scossoni tali da provocare ricadute politiche anche clamorose. Ricordiamo le scorribande di Michele Sindona e la resistibile ascesa di Roberto Calvi con una tela di ragno che arrivava alla Dc, in particolare a Giulio Andreotti, al Vaticano, al Psi, alla loggia massonica P2. Dal fallimento del Banco Ambrosiano di Calvi nasce il nucleo che genera poi la Banca Intesa, sotto la guida di Giovanni Bazoli, figura chiave della finanza cattolica, vicino a Beniamino Andreatta e a quella ala popolare della Dc confluita nel Partito democratico. Ma non va dimenticato nel 1995 il crac del Banco di Napoli (assorbito dopo una serie di peripezie da Intesa) che mette in luce altri intrecci morganatici con la Dc, non solo meridionale, ma nazionale, e legami trasversali da destra a sinistra.
La svolta impressa da Amato e da Mario Draghi, direttore generale del Tesoro che dà alla luce una nuova regolamentazione finanziaria, porta aria nuova, tuttavia da allora ad oggi non è stato più trovato un equilibrio stabile. Anzi, si sono susseguite ondate di fusioni e acquisizioni che hanno coinvolto direttamente la politica.
Nel 1999 si consuma l’ultima battaglia di Enrico Cuccia, il quale punta a creare una grande conglomerata finanziaria mettendo insieme la Comit, il Credit e il Banco di Roma, le tre “banche d’interesse nazionale già azioniste di Mediobanca, che così sarebbe stata al sicuro. Parallelamente il Sanpaolo Imi mette gli occhi sul Banco di Roma. Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro, è favorevole e pensa che un matrimonio tra Comit e Credit avrebbe fatto da pendant. Così chiama nel suo studio Cesare Geronzi, che guida la banca romana, e Rainer Masera, a capo di quella torinese, per esercitare la sua “moral suasion”. Massimo D’Alema, presidente del Consiglio, s’incontra invece con Cuccia, novantenne, ma sempre al timone, nella casa di Alfio Marchini, figlio del costruttore romano storicamente vicino al Partito comunista. Cuccia, contro il quale si era sempre schierata la Dc, è contrario alla fusione parallela e caldeggia il suo progetto chiamato Superbin. L’ex comunista è affascinato dal vecchio banchiere, il quale tra l’altro intratteneva cordiali, ma professionali rapporti con alti esponenti del Pci. La conversazione cade sul futuro di Mediobanca e D’Alema suggerisce di affidare la presidenza a Mario Draghi. Scende il gelo. Cuccia ritiene che Draghi lo abbia penalizzato aprendo le porte alle banche d’affari anglo-americane. Il Lord protettore del capitalismo italiano replica con il suo noto sarcasmo che il successore c’è già. “E’ di là, se vuole glielo presento”, dice. A quel punto entra Vincenzo Maranghi, il braccio destro che Cuccia chiamava Vincenzino, ma al quale ha sempre dato del lei. Quel doppio matrimonio non si fa e otto anni dopo, mentre al governo è tornato Romano Prodi, il Sanpaolo si unisce a Intesa nel quale nel 2001 era confluita anche la Commerciale, mentre il Credit Italiano, diventato Unicredit, assorbe Capitalia (già Banca di Roma). Alla presidenza di Mediobanca arriva Cesare Geronzi. E’ allora che il Montepaschi, ossessionato dal timore di restare fuori dal gioco, prende l’Antonveneta pur non potendo pagarla. Al timone della Banca d’Italia c’è Draghi, che ha preso il posto di Antonio Fazio travolto dallo scandalo delle scalate condotte nel 2005 dai “furbetti del quartierino” guidati da Emilio Gnutti, il cui esponente più flamboyant è Stefano Ricucci, convinto di poter controllare niente meno che il Corriere della Sera ancora nelle mani della coppia Mediobanca-Fiat. Un gran circo non solo italiano, ma europeo: sono in ballo la Bnl, il solito Monte dei Paschi, l’Antonveneta, l’Unipol, la popolare di Lodi, la olandese Abn Amro, lo spagnolo Banco de Santander.
Nel 2011, mentre l’Italia boccheggia sotto i colpi della crisi finanziaria internazionale e l’euro rischia di precipitare, il caso Monte dei Paschi (chiuderà l’anno con una perdita netta di 4,69 miliardi di euro) degenera in scandalo e trascina con sé un complesso politico-finanziario come quello senese storicamente oscillante tra la massoneria e la sinistra.
Questa lunga carrellata ci introduce al nuovo burrascoso conflitto tra banca e politica che si apre proprio mentre a Palazzo Chigi siede Draghi. Il Montepaschi nazionalizzato nel 2017 (temporaneamente si disse) dovrà essere rifinanziato dalle casse pubbliche (almeno altri 2,5 miliardi di euro). Ma non potrà andare avanti né nelle mani dello stato né tanto meno da solo. Intanto la Unicredit dovrà cercare un’altra strada per rafforzarsi in patria e fuori. Tra le prime banche europee per capitalizzazione c’è in testa con 72 miliardi di euro Bnp Paribas, che in Italia possiede la Bnl, poi il Santander con 57 miliardi, Ing con 51, Intesa Sanpaolo con 47, Unicredit è al nono posto con 25 miliardi. Orcel, il deal maker diventato deal breaker, come ha scritto il Financial Times, dovrà rimboccarsi le maniche.
Per sei mesi c’è stato solo il dossier senese, adesso gli tocca spiegare agli azionisti, sollevati dalle mancate nozze, verso quali lidi vuole dirigere l’unica banca italiana ritenuta sistemica dalla Bce.