Editoriali
Viva l'acciaio senza ideologie
La trasformazione dell’acciaieria di Terni è un inno alla globalizzazione
Non è passato molto tempo da quando la ThyssenKrupp di Terni sembrava una sorta di “hic sunt leones” della siderurgia italiana e delle relazioni industriali: impossibile produrre decentemente acciaio e leghe speciali alle quali lo stabilimento fondato nel 1884 (quando eravamo un paese pre-industriale) si è riconvertito, impossibili i profitti, impossibili rapporti normali con il sindacato, certo anche a causa degli incidenti mortali in altri stabilimenti del gruppo tedesco. Un destino non isolato, basta pensare all’Ilva di Taranto.
Ebbene, tra poche settimane l’azienda passerà all’italiana Arvedi, con conti in ordine, fatturato oltre i due miliardi e linee produttive a livelli record. Nonostante il costo crescente dell’energia. La vendita è stata decisa a settembre, l’acquirente italiano era pronto: Arvedi è all’avanguardia in acciai, leghe, laminati di ultima generazione, lavorazione a bassi consumi. Fa profitti occupando 3.500 persone che con i 2.700 di Terni daranno vita ad un polo per competere con i produttori tedeschi e, assieme, rendere l’Europa meno permeabile dalla siderurgia cinese.
Una soluzione interamente privata quando, fino a poco fa, c’era chi invocava lo smantellamento e la riconversione (a che?), o in alternativa l’intervento del Tesoro quale unica e ultima spiaggia. E di aprile 2021, non un’eternità, un rapporto di Claudio Costamagna, ex presidente di Cassa depositi e prestiti e ora nel cda di Fti consulting, gruppo di business advisory quotato a Wall Street, e di Gianfranco Tosini di Siderweb, che sosteneva come il declino della siderurgia italiana fosse evitabile se si adottavano gli standard delle aziende del nord, cioè forni elettrici, flessibilità, nuovi materiali e cura dell’impatto ambientale. Ma soprattutto aggregazioni, capitalizzazione, investimenti, produttività.
Quindi abbandono del gigantismo del modello pubblico a ciclo completo che ha messo in crisi, tra gli altri, Taranto e Piombino. La lezione virtuosa di Terni servirà a chi ancora predica lo statalismo in un settore in piena globalizzazione?