Guerra e cibo

"Per grano e mais serve una risposta europea". Parla il presidente di Coldiretti

Gianluca De Rosa

Russia e Ucraina sono tra i principali paesi esportatori di cereali e la guerra spinge i prezzi sono ai massimi. Il ruolo dell'Ungheria, che ha bloccato il suo export, e la necessità di una maggiore produzione nazionale. Intervista a Ettore Prandini 

“Con il comparto cerealicolo bisogna fare quello che si sta cercando di fare già con l’energia: siglare accordi strategici a livello europeo per frenare la speculazione e i prezzi”. Ettore Prandini, presidente della Coldiretti, è preoccupato. Il titolo del convegno organizzato insieme a Filiera Italia e Forum italiano dell’export nella prestigiosa sede dell’associazione a palazzo Pallavicini Rospigliosi è quanto mai intempestivo. “La primavera dell’export”. “Abbiamo preparato tutto molto prima che la guerra iniziasse, i dati segnalavano una vigorosa ripresa dopo le difficoltà dovute alla pandemia e alla crisi della supply chain”, confessano gli organizzatori. “Adesso i rischi sono grossi”, ammette Prandini. Sul tavolo dei relatori sono disposti lunghi rami di mimosa. È l’8 marzo. E dunque si festeggia la laboriosa imprenditoria italiana, soprattutto quella femminile. Le relatrici sono tutte donne di successo. Eppure in sala incombe un clima plumbeo. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio non c’è, lo impedisce la situazione internazionale. L’export italiano verso la Russia vale 7,7 miliardi. Sommato a quello in direzione Ucraina si superano 10 miliardi. Ma l’industria agroalimentare è poco interessata. Le esportazioni di questi prodotti verso la Russia si sono ridotti con l’embargo deciso da Mosca nel 2015. Una contrazione da allora di 1,5 miliardi (oggi parliamo di poco più di 600 milioni). A preoccupare agricoltori e imprenditori dell’industria agroalimentare sono altre cose: le importazioni di cereali e il caro energia.

 

 

Dottor Prandini quali sono oggi i problemi per la filiera?

Le preoccupazioni maggiori riguardano il comparto zootecnico e tutte le aziende che utilizzano grano tenero e grano duro, quindi pasta, dolci e pane. Oggi è stato il primo giorno in cui le quotazioni di grano e mais sono diminuiti dall’inizio del conflitto in Ucraina, ma i prezzi alla borsa merci future di Chicago, il punto di riferimento mondiale del commercio delle materie prime agricole, rimangono comunque ai massimi: 11,54 dollari per bushel (27,2 chili) di grano e 7,54 dollari per il mais.

 

Che cosa succede?

Ucraina e Russia insieme valgono quasi il 29 per cento delle esportazioni di grano tenero per la panificazione a livello mondiale, il 19 per cento del mais e l’80 per cento dell’olio di girasole utilizzato per conserve e fritture. In Italia importiamo solo il 13 per cento del grano dai due paesi, ma i prezzi sul mercato salgono e noi siamo un paese importatore: produciamo il 36 per cento del fabbisogno nazionale di grano tenero e il 52 per cento di mais. Poi ci sono decisioni infelici e speculazione…

 

Ci dica meglio.

Mi riferisco alla decisione dell’Ungheria che impedendo le esportazione dei cereali sta contribuendo ad alimentare la speculazione sulle materie prime agricole. Lo fa nonostante contratti di fornitura già siglati. E’ un atto gravissimo sul quale la Ue dovrebbe intervenire. In Italia è a rischio un allevamento su quattro che dipende per l'alimentazione degli animali dal mais importato da Ungheria e Ucraina.

 

Come si risove questa situazione?

La scelta dell’Ungheria va fermata, anche per i cereali. Come dicevo all’inizio, serve una risposta europea. Come sull’energia è necessaria una maggiore indipendenza dalle importazioni. Bisogna fermare lo smantellamento che è in atto la pandemia prima e la guerra poi hanno dimostrato che la globalizzazione spinta ha fallito. Servono rimedi immediati e un rilancio degli strumenti europei e nazionali che assicurino la sovranità alimentare, che non vuol dire protezionismo, ma rendere l'Europa e l'Italia autosufficienti dal punto di vista degli approvvigionamenti del cibo. Do un dato: negli ultimi dieci anni la produzione italiana di mais si è ridotta di un terzo e quella di grano del 20 per cento, questo perché molte industrie per miopia hanno preferito continuare ad acquistare sul mercato mondiale, approfittando dei bassi prezzi degli ultimi decenni, anziché garantirsi gli approvvigionamenti con prodotto nazionale attraverso i contratti di filiera.

 

Sull’energia invece qual è la situazione?

Con lo scoppio della guerra e la crisi energetica sono aumentati mediamente di almeno un terzo i costi produzione dell'agricoltura per un esborso aggiuntivo di almeno 8 miliardi su base annua. Basta stare ai numeri: oggi un kilowattora da noi costa 35 centesimi, negli Usa 6. Serve al più presto dimezzare le aliquote Iva al 4 e 10 per cento sui prodotti alimentari. Le alternative sono l’aumento dei prezzi nella grande distribuzione, e quindi per i consumatori, o il rischio del posto di lavoro per 40mila addetti del settore agroalimentare.

Di più su questi argomenti: