editoriali
La prudenza della Cina sul petrolio di Mosca può diventare un problema per Putin
C'è un primo segnale di una presa di distanza di Pechino. Fattori tecnici, difficoltà finanziarie e risvolti politici spingono le raffinerie cinesi alla cautela. Conta di più il mercato mondiale
Ricordate il refrain della propaganda russa? Chi se ne importa se l’occidente non ci compra il petrolio e il gas, noi vendiamo alla Cina, all’India, al resto del mondo che non vuole accettare il predominio euro-americano. Ebbene, fra tutta la disinformatia della quale Mosca ci inonda, questa è la balla più stupida. Qualcuno sia chiaro c’è cascato, tra questi non poteva mancare il Fatto quotidiano che non più di tre giorni fa scriveva sulla “grande abbuffata di petrolio russo a basso costo”, in particolare dalla Cina. Ebbene anche il Fatto è stato costretto a correggere il tiro.
Niente abbuffate, anzi Pechino ha invitato i suoi colossi energetici PetroChina, Cnooc, Sinochem, alla massima prudenza, ha scritto in esclusiva l’agenzia Reuters. Per il gas c’è un vincolo materiale: tra la Siberia e la Cina esiste un solo modesto metanodotto, il più grande è ancora un progetto. Per il petrolio si sommano ragioni tecniche, economiche e politiche. Molti ritengono che sia il primo segnale di una vera presa di distanza: è vero, il Quotidiano del popolo continua a sbraitare contro “il terrorismo economico americano”, ma l’amicizia con la Russia non è poi così totale. Quanto all’India, nemmeno lei s’è gettata sul greggio russo con la foga di un affamato. Mosca sta svendendo il suo petrolio offerto fra i 30 e i 40 dollari al barile rispetto ai 103 dollari (ultimo prezzo giovedì per il Brent), ma secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, la Russia in questo mese di aprile galleggia su tre milioni di barili al giorno che nessuno compra, a cominciare proprio dalla Cina che con 1,6 milioni di barili al giorno è il maggior cliente.
Cominciamo dai fattori tecnici. Il greggio russo proveniente dagli Urali è molto, troppo solforoso, e richiede un processo di pulitura costoso. Inoltre portarlo via nave è lungo, rischioso e anch’esso costa caro, molto più che non farlo arrivare dal Golfo Persico, dall’Africa la cui quota nell’export mondiale sta salendo, dal Brasile. Con le sanzioni s’aggiungono poi le difficoltà finanziarie: come pagare e dove pagare? Quale banca si presta? Quanto pesa in termini di immagine? Alla prudenza sul petrolio s’accompagna l’estrema cautela nel consentire a Mosca una sorta di uso politico dello yuan. La Cina non approva le sanzioni, ma non vuole nemmeno sfidare un mercato mondiale del quale ha estremo bisogno. Da sempre Pechino ha fatto della propria affidabilità un mantra, non può gettare a mare quarant’anni di faticoso cammino fuori dalla fame. L’esempio dell’Iran fa testo. L’embargo americano funziona, la Cina, la Turchia, gli stessi Emirati arabi che continuano a comprare, ricorrono al baratto usando l’oro e i beni dei quali gli iraniani hanno più bisogno, per esempio i pesticidi. La mossa più paradossale riguarda lo Sri Lanka che paga in tè il proprio debito petrolifero: sono ben 251 milioni di dollari, hai voglia a coltivare camelia sinensis.
Tutti fattori importanti per chi commercia, tuttavia non possiamo nascondere il significato politico di un rifiuto che s’estende a macchia d’olio. Xi Jinping resta interessato nel lungo termine a un grande scambio con il vicino russo: su un piatto della bilancia l’importazione delle materie prime che alla Cina mancano e sull’altro l’esportazione di forza lavoro della quale la Cina finora abbonda. La Siberia orientale è la gigantesca piazza per questo mercato. Ma tutto ciò dipende da quel che accade in Ucraina. I sinologi più attenti hanno colto numerosi segni di insoddisfazione per una guerra che sta sfuggendo di mano. Gli evidenti insuccessi dell’esercito russo hanno sorpreso e nello stesso tempo irritato i militari cinesi che, in quel complesso sistema di potere, svolgono un ruolo molto importante accanto al partito e al “nuovo imperatore”. L’esercito possiede banche e grandi imprese, per molti versi è uno stato nello stato anche se il Pcc e il presidente possono cambiarne i vertici. Senza dimenticare che una catastrofica sconfitta russa in Ucraina diventerebbe un campanello d’allarme per le mire di Pechino su Taiwan. Xi Jinping fa il doppio se non il triplo gioco, ma non ha intenzione di farsi trascinare nell’abisso scavato da Putin.