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editoriali

I paletti della nuova Cassa depositi e prestiti non si vedono

Redazione

Il Ministero dell'Economia annuncia una svolta in Cdp. Quali sono le opportunità e i rischi per il futuro

Cassa depositi e prestiti rappresenta un asset estremamente importante con una presenza enorme nel sistema creditizio. Si tratta di vedere come questo ruolo possa essere in futuro ancora rafforzato”. Il ministro dell’Economia Daniele Franco, rispondendo ieri alla Camera sulla partecipazione dello stato nelle banche non ha chiarito i dubbi sull’uscita del Tesoro, dai due istituti dove è presente, Monte dei Paschi e Popolare di Bari. Ha parlato di “tempi sostenibili” e di necessità di realizzare entro il 2022 l’aumento di capitale da 2,5 miliardi di Mps, e solo dopo questo esborso che graverà sui contribuenti (il Tesoro è azionista di maggioranza) “verosimilmente si valuterà la sua cessione”. Ha ricordato l’impegno con la Commissione europea per concludere gli aiuti pubblici. Quanto alla Popolare di Bari ora partecipata dal Mediocredito centrale, di proprietà Invitalia e rinominata Banca del Mezzogiorno, “è assolutamente importante che prosegua l’ azione di contenimento dei costi e recupero degli impieghi su scala più ampia. Superata questa fase si potrà considerare il ritorno alla vendita della partecipazione statale”.

Peccato che in entrambi i casi le precedenti trattative siano svanite nel nulla. E’ naturale chiedersi se nel caso che nessuno voglia farsi avanti, almeno alle condizioni imposte finora dalla politica soprattutto locale, e dal sindacato, la soluzione accarezzata dal governo sia quella di sostituire al Tesoro la Cdp, cioè la propria partecipata che dovrebbe occuparsi di tutt’altro. Una scappatoia già abbondantemente utilizzata nelle crisi industriali mentre in campo bancario la Cdp è proprietaria delle Poste, e quindi del suo ramo creditizio, che peraltro la ripaga con buoni bilanci e gli interessi sulle obbligazioni. Salvare ciò che resta delle banche pubbliche, quindi operare in perdita, attraverso la Cdp sarebbe un ritorno allo stato banchiere dei tempi dell’Iri, una storia non esaltante conclusa a inizio anni 90 anche grazie all’allora direttore del Tesoro, Mario Draghi. Oggi proibita dalle regole, dal mercato e dal buon senso.

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