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Tutti i bonus che esistono in Italia: catalogo smaliziato e non ideologico
Agevolazioni, incentivi, detrazioni, sostegni, redditi, assistenze. Ma quanti sono i bonus italiani? A cosa servono? Come funzionano? Chi può averli? Quanto costano? E quand’è che funzionano? Indagine su un paese che cresce anche a colpi di pazzi bonus
Dalle tende contro il sole agli animali domestici, dagli occhiali agli scooter elettrici, dalla natalità alle bollette, ce ne sono una quarantina spalmati qual burro sulla baguette. No, l’Italia non è Il paese dei cachi come cantavano Elio e le Storie Tese, tanto meno il paese dei fichi d’India. Non è nemmeno la grande proletaria rappresentata dai campioni del populismo né la nazione isolata e negletta, immagine tanto cara ai sovranisti. No, l’Italia è oggi più che mai il paese dei bonus. Per orientarci li abbiamo separati e raccolti in un box, ma qualche cespuglio può esserci sfuggito. Nel momento della loro maggiore diffusione, cioè nel biennio della pandemia, una famiglia italiana su due ha ricevuto almeno un bonus. Il governo Meloni è partito con l’idea di disboscare la giungla, ha preso a bersaglio i due provvedimenti più importanti, più costosi e più alieni politicamente e culturalmente ai nuovi inquilini del Palazzo: il Reddito di cittadinanza e il Superbonus 110 per cento frutto dei Cinque stelle anche se votati da Matteo Salvini. Ma ne sono arrivati altri come il bonus per fare più figli, o lo sconto fiscale alle aziende che assumono giovani. Servono davvero?
L’assistenza in senso proprio negli ultimi quindici anni è balzata da 75 a 145 miliardi di euro e i poveri assoluti sono saliti da 2,1 a 5,6 milioni. Dunque, la spesa non compensa l’impresa, ma cosa sarebbe oggi l’Italia senza quei 70 miliardi aggiuntivi? Davvero potrebbe generare più reddito e suddividerlo in modo più equo? Abbiamo esagerato noi che “il capitalismo è buono”, “il liberismo è di sinistra” o, in ogni caso, è sempre meglio del protezionismo, dello statalismo, del sovranismo autarchico? Andrea Brandolini, vice capo del dipartimento Economia e Statistiche della Banca d’Italia, che scandaglia da par suo ricchezza e povertà, spiega: “I trasferimenti sociali monetari hanno contribuito a sostenere il reddito disponibile lordo delle famiglie, in termini pro capite e a prezzi costanti, per oltre tre punti percentuali sia nel 2020 sia nel 2021, contrastando il notevole calo dei redditi da lavoro dipendente e autonomo e delle entrate da proprietà; un ulteriore sostegno è venuto dal minor ammontare di imposte e contributi dovuto nel 2020, ma non nel 2021, quando la ripresa è stata robusta. Rispetto al 2019, il reddito disponibile pro capite reale delle famiglie si è ridotto del 2 per cento nel 2020 ed è aumentato dello 0,6 per cento l’anno successivo, ma sarebbe diminuito rispettivamente del 6,9 per cento e dell’1,7 per cento senza l’accresciuto intervento del bilancio pubblico”. Insomma, grazie alla moneta lanciata non dall’elicottero, ma da Palazzo Sella, il fortino romano del Tesoro, “la caduta dell’attività economica durante la pandemia ha avuto conseguenze per il reddito aggregato delle famiglie assai meno sfavorevoli che nelle due crisi precedenti, quando il contributo di trasferimenti e imposte non arrivò a un terzo di quello dell’ultimo biennio, quando i trasferimenti pubblici hanno raggiunto un’ampia fascia della popolazione: l’Istat stima che nel 2020 il 41 per cento delle famiglie ne abbia ricevuto almeno uno”.
Ebbene sì, siamo stati bersagliati da una campagna a tappeto sull’Italia che muore non solo di coronavirus, ma ancor di più per la fame, la sete (ci si è messa pure la siccità), la disoccupazione, aggiungi l’isolamento forzato, la depressione, la paura e la rabbia. Le aride statistiche, la triste scienza che non ci fa ridere, ma spesso ci mostra quel che non vogliamo vedere, dicono altro. Abbiamo vissuto un periodo in cui lo stato ha aperto l’ombrello e ha impedito che un’ondata di impoverimento di massa s’abbattesse sugli italiani. Ecco quel che scrive ancora Brandolini: “Grazie all’imponente sostegno pubblico, l’aumento della diseguaglianza dei redditi è stato complessivamente modesto se raffrontato alla dimensione della contrazione economica. L’incremento di 0,4 punti dell’indice di Gini rispetto al 2019 è pari a quello registrato tra 2011 e 2012, nonostante una caduta del pil pari a tre volte quella avvenuta allora”.
Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia in scadenza del suo secondo mandato, non è mai stato consolatorio nelle sue analisi, tanto meno sugli effetti distorsivi delle due principali misure assistenziali, il Reddito di cittadinanza e il Superbonus, alle quali s’aggiunge ora la conclamata flat tax, tuttavia ha riconosciuto che gli ammortizzatori hanno funzionato, anche se “non è pensabile un futuro basato su sussidi e incentivi pubblici”.
Non è un pranzo gratis, non ne esistono se non nei sogni degli utopisti e nelle promesse dei demagoghi. Allora, chi paga? La mano pubblica emettendo buoni del tesoro e aumentando il debito: dal 2015 al 2019 era già cresciuto di 170 miliardi, se ne sono aggiunti 160 nel 2020 e altri 190 miliardi nel biennio 2021-2022. Il buco è stato colmato grazie alla crescita? Solo in parte e non lo sarà mai del tutto. In rapporto al pil il debito pubblico è sceso di un punto e mezzo arrivando al 144,4 per cento, ma siamo comunque tra i peggiori al mondo (numero quattro dopo Giappone, Venezuela e Grecia) in cifra assoluta si tratta di 2.800 miliardi di euro da trovare sul mercato finanziario interno e internazionale. Quasi un quarto è nella cassaforte della Banca d’Italia per conto della Bce, che tra il 2020 e il 2022 ha acquistato Btp per 382 miliardi, ma non ne comprerà più. E’ vero, intanto però tutte le maggiori economie sono cresciute l’anno scorso meno di quella italiana che, con un 4 per cento in più, ha superato dell’1,8 per cento i livelli pre crisi. Il pil continua a salire anche se a un passo lento e sempre più stanco. Per non esagerare in euforia, non dimentichiamo che da quando nel 2011 lo stato sovrano era sull’orlo del default, il paese ha passato un decennio in apnea, una stagnazione che ha visto ridursi il reddito pro capite: nel 2007 aveva sfiorato i 29 mila euro annui per poi scendere a 26 mila euro nel 2012, non arrivava a 27 mila euro nel 2021, mentre la media dei paesi della zona euro s’aggira sui 31 mila euro. Insomma, c’è una lunga strada da percorrere e non sappiamo se ne avremo le forze. Eppure noi, sviluppisti senza sfumature, dovremmo raffreddare gli eroici furori. Il caso del Reddito di cittadinanza ci invita a un bagno di umile realismo. Qui l’errore è nei fatti perché non ha penalizzato l’occupazione che, anzi, è aumentata dopo l’uscita dalla pandemia. Ciò conferma, è vero, un postulato liberista: a creare posti di lavoro è lo sviluppo economico non l’assistenza né la sovrastruttura di incentivi che anche questo governo sta redendo ancor più rococò. Ma un caposaldo della nostra polemica vacilla.
In un’analisi comparata dei vari sussidi alle fasce deboli della popolazione, Pietro Ichino mette in luce che i due difetti fondamentali del Reddito di cittadinanza riguardano i costi e il disincentivo a trovare lavoro. Sul primo punto ha ragione perché i costi sono notevoli, eccessivi rispetto agli obiettivi: nei primi tre anni, il reddito e la pensione di cittadinanza sono stati erogati a 2 milioni di nuclei familiari, per un totale di 4,65 milioni di persone, con una spesa di quasi 20 miliardi di euro. Sul secondo punto, cioè l’impatto negativo sul mercato del lavoro, bisogna andarci piano, perché le relazioni tra sussidi e impiego sono molto più sfumate. Lo dicono i dati: un milione 270 mila posti di lavoro durante i governi Renzi-Gentiloni, un altro milione e 24 mila durante il governo Draghi; oltre la metà con contratti a tempo indeterminato. Gli occupati già nel primo trimestre dello scorso anno erano tornati allo stesso livello più alto del 2019, cioè 23 milioni e 200 mila, da allora a oggi ne sono stati aggiunti altri 200 mila.
Attenti a non confondere le carte in tavola, polemizza Roberto Rossini presidente delle Acli e portavoce dell’Alleanza contro la povertà: “Il Reddito di cittadinanza si è rivelato efficace per l’obiettivo che gli è proprio, cioè tutelare le situazioni di povertà – ha dichiarato in una intervista a Vita – Pochi hanno trovato lavoro? Non è il criterio corretto per giudicare lo strumento, perché il problema delle politiche attive del lavoro non si risolve con i navigator, ma con una buona rete di centri di formazione professionale, col dialogo fra scuole, aziende e camere di commercio, con una infrastruttura che non è quella dei servizi sociali. Mettere insieme due politiche così differenti è stata una scelta che si sta rivelando sbagliata”. Dunque sbaglia il governo Meloni a separare chi è in grado di lavorare e chi no? In realtà sembra che questo criterio di accesso al bonus sia scomparso e nell’ultima versione del provvedimento varato per decreto governativo sia caduta una distinzione per lo più cervellotica. “Rimane il fatto che questo sia un provvedimento anfibio, perché tiene insieme due logiche differenti, la tutela contro la povertà e le politiche attive del lavoro che hanno altre logiche, altri strumenti, altri interlocutori. Questo è un problema di fondo. In questo modo si rischia una guerra fra poveri”. Nel 2019 quando venne introdotto dal governo Conte-Salvini, il Reddito di cittadinanza fu esaltato come la fine del predominio del lavoro sul reddito, un capovolgimento epocale che chiudeva l’era del sudore dalla propria fronte aperta niente meno che dalla Bibbia (chiedere a Domenico De Masi). Adesso si cerca di ricondurlo nell’alveo di un sussidio per la ricerca di lavoro. Confusion de confusiones.
Mentre infuriava la battaglia tra reddito e lavoro, è stato tutto un ascoltare “le voci degli ultimi”. Il Fatto quotidiano ha fatto ben più del Manifesto, ma non sono mancati la Repubblica e il Corriere della Sera. Una selva di testimonianze raccolte senza la pretesa di offrire un campione statisticamente rilevante, non è la statistica a prevalere, ma la sofferenza di una umanità che si batte e s’arrabatta per sopravvivere, ed è pur sempre il punto da cui partire. Alcune storie ci hanno colpito in particolare, una viene dal sud e l’altra dal nord, entrambe smentiscono idee correnti sul Reddito di cittadinanza. Dice di chiamarsi Luisa e si vergogna a farsi passare per mendicante. Ha pianto di rabbia quando ha visto che le hanno accreditato solo quaranta euro. Lei voleva un lavoro, ha ottenuto un obolo. “Non cercavo soldi regalati, ma una speranza. Sono madre con tre figli minori e ho un mantenimento molto ballerino. Questa non è vita, anche perché le mie condizioni economiche sono peggiorate dal 2017. Intanto ai colloqui mi ripetono: bel curriculum, ma con tre bambini come fa a lavorare?”. E’ il racconto di una donna quarantenne che abita a Parma. Dalla parte opposta, sulla punta dello stivale, c’è Giovanni che non ha nemmeno trent’anni ed è laureato in Giurisprudenza. A lui è andata meglio, ha incassato quasi 150 euro. “Vorrei metter su famiglia, vorrei qualcosa di stabile, al momento sto ultimando il tirocinio propedeutico all’esame di abilitazione alla professione forense, 18 mesi non retribuiti, senza copertura assicurativa né previdenziale. Il mese di agosto invece di andare al mare farò il vigile urbano. Per un mese, e probabilmente perderò il sussidio. Spero di non uscire dal programma e che mi sia offerta un’occupazione, una qualsiasi. Il lavoro non mi spaventa, neanche quello manuale, per mantenere gli studi e aiutare i miei ne ho fatti di ogni tipo. Qui, però, fatichi come uno di Milano, ma la busta paga (quando la vedi) è la metà se non un terzo. Il Reddito di cittadinanza non mi ha reso ricco come qualcuno sosteneva e tanto meno sono stato sul divano a girarmi i pollici. Ma mi ha permesso di comprare un paio di scarpe o una maglietta senza dover chiedere i soldi ai genitori. A 28 anni, credetemi, è una cosa molto deprimente; ogni mattina osservo la mia laurea appesa al muro e mi chiedo se ne sia valsa realmente la pena”. Fulvio da Catania ha fatto il gioielliere per 25 anni, una figlia a carico della madre separata, si sente umiliato perché non può offrirle più nulla. Alberto da Messina non vuole accettare “lavori da schiavo”, Marco da Genova, 50 anni, vorrebbe tornare a lavorare, ma i corsi che vuole frequentare sono a pagamento e non se li può permettere.
Due percettori del Reddito di cittadinanza su tre risiedono nel mezzogiorno, ma non c’è solo il sud: negli elenchi e nelle testimonianze troviamo Cremona, Perugia, Bergamo, Mantova, Pisa, Torino, Novara, Genova. Ci sono i giovani, ma c’è soprattutto una fascia davvero marginale, gli “occupabili” sono poco più della metà, un quindici per cento non ha mai lavorato, circa un quarto ha perso il posto e non riesce a trovarne un altro perché considerato troppo anziano. Non esiste un mercato per chi ha superato i cinquant’anni nonostante ormai si viva fino a ottanta. Un nonsenso economico, non solo sociale. Per tutti loro il punto di vista è capovolto rispetto a quello del governo: in tasca hanno avuto poco, mentre lo stato ha sborsato troppo, oltre le sue stesse possibilità. E’ venuto almeno da qui un contributo alla ripresa? Nel 2022 i consumi delle famiglie sono cresciuti in media di quasi il 4 per cento, quest’anno si prevede un modesto +0,6 per cento anche per effetto dell’inflazione che ha colpito il potere d’acquisto. La domanda estera è ripresa, però rallenta anch’essa, da +6,5 a +2 per cento, la grande spinta è arrivata dagli investimenti fissi lordi (+9,6 per cento) soprattutto in macchinari, recuperando così il crollo dovuto alla pandemia. C’è poi il ritorno dei turisti i quali portano valuta e utili a ristoranti, alberghi, taxi, mezzi di trasporto in genere. Sono i settori economici che hanno sofferto di più, ma sono anche quelli dove sono arrivati sostegni sotto forma di bonus e sconti fiscali. E l’edilizia?
Sull’effetto volano del Superbonus ci si è accapigliati a lungo con i Cinque stelle pronti a sventolare la loro bandiera ed esaltare davanti agli scettici le mirabilia del 110 per cento che solo a chiamarlo così evoca l’Isola che non c’è o la campanelliana Città del sole. A dar loro manforte i costruttori edili, paventando sfracelli nel caso venisse abolito. Giancarlo Giorgetti ha cercato di riportare tutti alla realtà, il ministro dell’Economia s’è fatto forte non soltanto delle distorsioni macroscopiche di una misura usata spesso come una sorta di bancomat, senza contare impicci e imbrogli, ma dei costi esorbitanti per il bilancio pubblico.
In base alle ultime stime elaborate dal governo, i bonus utilizzati tra la seconda metà del 2020 e i primi mesi del 2023 hanno attivato, soprattutto attraverso il meccanismo della cessione del credito, un ammontare di spese a carico dell’erario pari a 116,13 miliardi di euro, soprattutto crediti e sconti in fattura. I calcoli non sono semplici, ma cerchiamo di attraversare il labirinto delle cifre per capire vantaggi e svantaggi. In cerca di una “voce di mezzo” ci siamo rivolti al Consiglio nazionale degli ingegneri che nell’aprile scorso ha pubblicato una indagine sugli incentivi all’edilizia. Dai dati dell’Enea si sa che nel periodo compreso tra agosto 2020 e marzo 2023 sono stati attivati e realizzati lavori con Super ecobonus (110 per cento fino al 2022 e a partire dal 2023 con una detrazione al 90 per cento) per il risparmio energetico per una spesa pari a 74 miliardi di euro, che per effetto delle detrazioni “potenziate”, determinano al momento un onere effettivo a carico dello stato ancora più elevato, pari a 80 miliardi di euro. In base all’Agenzia delle entrate, gli interventi con Super sisma-bonus (110 per cento e a partire dal 2023 con una detrazione del 90 per cento per miglioramenti anti terremoto) hanno generato nel periodo compreso tra ottobre 2020 e febbraio 2023 cessioni del credito e sconti in fattura per 13,4 miliardi di euro (si tratta però solo di una quota parte della spesa complessiva). Nei primi tre mesi di quest’anno sono stati erogati 11 miliardi di euro per interventi di risparmio energetico sugli edifici residenziali con detrazioni al 110 per cento o al 90 per cento, in aumento rispetto agli 8 miliardi dello stesso periodo del 2022. Il risanamento energetico su più di 403.000 edifici ha determinato finora un risparmio di quasi 1,3 miliardi di metri cubi standard di gas, quasi la metà dei minori consumi del paese. Dunque è venuto da qui un colpetto niente male al ricatto di zar Vlad. Eppure gli interventi sono ancora troppo pochi: hanno riguardato 101 milioni di metri quadrati di edifici residenziali, circa il 4 per cento delle superfici degli immobili più vecchi.
Secondo i Cinque stelle l’edilizia sovvenzionata ha fatto da traino alla ripresa post pandemica e ha innescato il forte rimbalzo del 2021. L’Istat non ne è convinto, tuttavia l’impatto c’è stato. Il centro studi del Cni spiega che, soprattutto nel 2022, quando gli investimenti per Superbonus hanno superato i 50 miliardi di euro, “i flussi di spesa ripartiti per anno, hanno generato apprezzabili effetti espansivi sul sistema economico: super eco-bonus e super sisma-bonus hanno, infatti, contribuito alla formazione dello 0,7 per cento del pil nel 2021 e l’1,5 per cento nel 2022, attivando 222.000 unità di lavoro dirette nel 2021; oltre 600.000 unità di lavoro nel 2022”. La domanda “chi paga?” si ripropone chiara e netta. Il gettito fiscale generato dalle opere realizzate grazie al Superbonus è stimato a circa il 33 per cento del valore delle detrazioni a carico dello stato (sulle quali pesa il meccanismo del 110 per cento) e il 36 per cento del fatturato. Gli ingegneri hanno emendato le cifre grezze calcolando il dare e l’avere, così facendo le detrazioni raggiungono i 97,9 miliardi di euro, gli incassi hanno portato al fisco 32 miliardi di euro, quindi 64,4 miliardi di euro sono usciti dalle tasche di Pantalone.
Non si sfugge, insomma, all’immagine di una repubblica fondata su un assistenzialismo diffuso, confuso e dispendioso, che pesa sui conti pubblici con un onere praticamente raddoppiato rispetto al 2008. L’Italia spende più della media europea, ma nel calderone del welfare vengono fatte ribollire anche le pensioni, mentre restano molto inferiori le prestazioni per le famiglie e contro la disoccupazione. Secondo l’Inps, è pura assistenza quasi un assegno su quattro dei 17,7 milioni di trattamenti che risultano al primo gennaio di quest’anno. Si tratta di oltre quattro milioni di pensioni e assorbono un decimo della spesa complessiva che ammonta a 231 miliardi di euro. Le prestazioni assistenziali sono costituite per il 20,3 per cento assegni sociali, il 37,5 per cento erogati a uomini. La previdenza in senso stretto (13 milioni e 685 mila assegni) è ampiamente autofinanziata al netto delle imposte, spiega Alberto Brambilla, che presiede il Centro studi e ricerche “Itinerari previdenziali” che ha presentato alla Camera dei deputati il suo ultimo rapporto, mentre resta da coprire tutta la componente assistenziale relativa a tutte le prestazioni collegate al reddito e la spesa sanitaria che ammonta a 125 miliardi e non avendo contributi di scopo debbono essere finanziati dalla fiscalità generale”. Il vero allarme, allora, non viene tanto dalle pensioni, anche se bisogna fermare le uscite anticipate, proprio quelle che la Lega vuole incentivare. “Il sistema è stato messo nel complesso in sicurezza, grazie alla legge Fornero e agli altri interventi che si sono succeduti negli ultimi 15 anni. Spendiamo molto soprattutto in assistenza, ed è forse questa spesa eccessiva, abbinata a inefficienti controlli, a incentivare sommerso e lavoro nero, generando il tasso di occupazione peggiore in Europa”, afferma lo studioso e rilancia il tema della separazione della previdenza dall’assistenza, uno dei capitoli centrali del confronto tra governo e parti sociali sulla nuova riforma pensionistica, indicando anche una possibile strada da percorrere. Non c’è una ricetta unica, per sostenere lo stesso livello di prestazioni occorre agire su un intrico di problemi: bassi tassi di occupazione, bassi salari, una contrattazione sindacale troppo parcellizzata in mille contratti, vecchia, poco innovativa basata su eccessive tutele e plafonata sui redditi bassi, un inefficiente incontro tra domanda e offerta di lavoro, una scarsa produttività, un’elevata evasione fiscale e contributiva e l’eccessiva assistenza e l’assoluta mancanza di politiche attive del lavoro. Oppure tagliare la spesa non con le forbicine, ma con l’accetta, ridisegnando l’intero perimetro dell’assistenza e dell’intervento pubblico. Vasto programma, davvero vastissimo. Chi ne è capace? Certo non la sinistra, tanto meno la destra, né quella “sociale” né quella “liberale” che non è stata in grado di realizzare non solo la conclamata rivoluzione, ma neppure un riformismo mercatista che poi sarebbe stato molto più efficace anche se meno vendibile a “Porta a Porta”.
Dovremo dunque convivere con elargizioni concesse talvolta sotto la pressione dell’emergenza, talaltra per accontentare gli elettori, i ceti di riferimento, i clientes. Quanto potrà durare non è chiaro. Ma siamo sicuri che l’Italia rappresenti davvero un’eccezione? Ogni abitante europeo prima della pandemia riceveva poco più di ottomila euro annui per le prestazioni sociali. L’Italia era nella media dell’Unione. La soglia, tuttavia, è amplissima, va dai 20.514 euro del Lussemburgo ai 1.211 della Bulgaria. Quando William Beveridge rettore della London School of Economics, liberale non laburista, pubblicò il suo primo rapporto, era il 1942 e l’Inghilterra combatteva contro l’aggressione della Germania hitleriana. Sconfitto il nazismo, il Labour party al governo nel 1945 dopo aver battuto Winston Churchill, l’eroe della vittoria, cominciò a introdurre i sussidi di disoccupazione e il sistema sanitario nazionale dando il via al moderno welfare state. Oggi il tema comune è il reddito minimo. I primi paesi ad adottarlo sia pure in forme diverse sono stati il Regno Unito nel 1948; la Svezia nel 1956; la Germania, nel 1961; i Paesi Bassi nel 1963, fino ad arrivare a Grecia e Italia. Tema controverso con implicazioni anche ideologiche tra chi pensa che un neonato abbia diritto a un reddito dal momento in cui emette l proprio vagito e chi continua a ribadire la centralità del lavoro in ogni società umana. I pragmatici si dibattono su quale salvagente è più efficace per galleggiare nelle tempeste che oggi sono provocate dalla nuova, ultima in ordine di tempo, rivoluzione industriale. E questa è la strada da seguire, sulle orme di lord Beveridge: pochi meccanismi ai quali possa accedere chiunque ne abbia i requisiti, strumenti snelli, efficaci che aiutino a uscire dalla trappola della povertà, non a perpetuarla gettando qualche obolo a chi vi è caduto e non riuscirà mai a liberarsi.