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Ex Ilva, come siamo arrivati fin qui
ArcelorMittal ha chiuso le porte al governo. Il futuro degli stabilimenti di Taranto è sempre più incerto. Ripercorriamo una storia di giustizialismo, sindrome del No, approssimazione politica, populismo disfattista. La storia dell'acciaieria e di un paese in guerra contro se stesso
L'incontro di ieri a Palazzo Chigi tra il governo e Adytha Mittal si è chiuso con una rottura. I soci indiani di Mittal non sono disponibili per ulteriori investimenti sull'acciaieria di Taranto (era stato chiesto un aumento di capitale sociale di 320 milioni, utile per concorrere all’aumento al 66 per cento della partecipazione del socio pubblico). Il governo ora può solo fare in modo che sia interamente la parte pubblica, attraverso Invitalia, a farsi carico dell’aumento di capitale necessario per mantenere almeno la minima operatività dell’azienda. La convocazione dei sindacati è per l’11 gennaio.
Abbiamo raccolto qui alcune letture utili per ripercorrere il delirio industriale che ci ha portato fino a questo punto. Quella che segue è la storia di Ilva. È la tipica storia italiana in cui si parte da una grande intuizione ma che presto per l’incapacità di sommare le energie e conciliare le esigenze, si trasformerà in un disastro. Giustizialismo, sindrome del No, approssimazione della politica, populismo disfattista. L’acciaieria di Taranto è la summa dei problemi incrostati d’Italia.
L’Ilva è lo specchio di un paese in guerra contro sé stesso, scrive Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl dal 2014 al 2020. Bentivogli si è occupato di siderurgia dal 2008. L’anno precedente era stato un anno importante per il settore: fu l’anno record per la domanda mondiale d’acciaio. La siderurgia è il settore primario del manifatturiero e per il nostro paese perdere, dopo l’alluminio, anche la produzione di acciaio significa perdere sovranità industriale. Per questo la storia di Ilva èimportante ma riflette anche tutte le contraddizioni del nostro paese.
La verità sull’inizio della fine del settore, raccontata da chi l’ha vissuta.
Sequestri preventivi, espropri e accuse infondate. Quello del siderurgico è un fallimento politico-giudiziario, non di mercato
L’Italia è l’unico paese avanzato ad aver lasciato che una grande acciaieria a ciclo integrato a caldo subisse espropri e commissariamenti giudiziali dei suoi impianti e dei suoi semilavorati, nonché dei conti e patrimoni aziendali e di quelli di ogni suo ex socio privato, con governi fermati dalle impugnative giudiziarie tutte le volte che hanno provato a contenere i fermi giudiziali. L’esito è non aver saputo individuare in così tanti anni una strada solida per fare punto a capo, e non perdere acciaio da altoforni. Dopo undici anni di agonia dall'inizio dei sequestri giudiziali, l’azienda muore di asfissia. Il fallimento delle intese grilline dovrebbe portare a esperire le strade legittime per disimpegnare Mittal e aprire a chi voglia davvero investire su rilancio e decarbonizzazione.
La vicenda dello scudo penale tolto dal governo Conte, che poi cambiò in gran segreto gli accordi parasociali stralciando la riassunzione degli operai in esubero in Ilva in As. Che ovviamente rimarranno in Cigs fino alla pensione, dato che nessun governo si prenderà la responsabilità di lasciarli senza stipendio, neppure quelli che si vantano di abolire il Reddito di cittadinanza e poi ne mantengono uno a vita e con il doppio del salario. Che poi è la ragione per cui il M5s anziché chiudere l’Ilva come promesso, ha preferito far entrare lo stato causandone una lenta agonia. Così quest'anno, quando si spegneranno anche i due altoforni arrivati a fine ciclo, resteranno in Cigs a vita tutti i 10 mila lavoratori e l’Italia senza acciaio. Gratuitamente.
Scomparsi i Riva e Lucchini, l’Ilva in disfacimento. Hanno fallito tutti: dai tedeschi ai russi, dagli algerini agli indiani. Una vera maledizione. Davvero l'Italia non è un paese d'acciaio?
Sull'ex Ilva, come su altre aziende strategiche italiane, ora incombe la tentazione della nazionalizzazione. Ma non è affatto detto che sia la soluzione migliore. Anzi. Per governare un impianto di queste dimensioni serve un socio industriale forte che creda fino in fondo nel rilancio dell’acciaieria. Il problema del bilancio di Taranto è un problema di competitività della produzione di tutto l’acciaio europeo nel confronto con i cinesi e con gli indiani.
Nei suoi 55 anni di storia, comprensiva del siderurgico di Taranto, solo per 17 anni Ilva è stata privata. Le privatizzazioni del centrosinistra degli anni 90 dimenticarono le regole di responsabilità sociale e di partecipazione dei lavoratori. Ma i nostalgici non ricordano come la siderurgia pubblica lasciò il campo, regalandoci ripiegamento industriale e occupazionale, disastri ambientali e spesso corruzione.
Adesso il governo dovrebbe ammettere di aver continuato a sbagliare tutto (dopo il folle accordo sottoscritto da Di Maio). E aprire alla vendita a una cordata interessata davvero a investire per il rilancio del ciclo integrato a caldo e l’avanzamento della decarbonizzazione