Editoriali
Il Made in Italy che Adolfo Urso non considera, mentre si preoccupa di Stellantis
Nelle stesse ore dell'affaire Alfa Romeo, una delegazione di Cna Toscana incontrava una delegazione francese per lavorare a un "piano moda" congiunto. Questo perché i problemi della moda sono ignorati dai giornali e dal governo, ed è un grosso problema
Per farsi un’idea del livello di smarginatura dell’affaire Alfa Romeo “Milano” e dell'incongruenza di certe azioni di Adolfo Urso rispetto al mondo degli affari e dell’industria in generale, basti dire che nelle stesse ore in cui il ministro del Made in Italy accusava Stellantis di violare la legge contro l’italian sounding pretendendo di battezzare con il nome “Milano” un’auto prodotta in Polonia (chissà che cosa dovrebbero fare i nostri marchi di moda che producono in Turchia e Marocco senza mai cambiare nome ai modelli di gonna), una delegazione di Cna Toscana incontrava una delegazione francese guidata dalla ministra delle imprese e del turismo Olivia Grégoire per lavorare a un “piano moda” congiunto volto a rafforzare le rispettive piccole e medie imprese, nell’ambito di un programma di sviluppo produttivo per le nuove industrie ad alto potenziale predisposto dal presidente Macron, ETIncelles (le “eti” sono l’equivalente delle pmi italiane, ma etincelles significa anche scintille, bel nome).
La forza delle piccole e medie imprese del settore è elevata, ma sul fronte italiano queste azioni si rendono necessarie perché il lusso sta perdendo quota e in Toscana tira da mesi aria di cassa integrazione per molte aziende della famosa filiera, tanto “unica al mondo”, di cui Urso si è riempito la bocca in occasione della giornata del Made in Italy. Lvmh, che in Italia ha quasi 10 mila dipendenti e produce una parte consistente della propria pelletteria e del proprio abbigliamento, ha appena annunciato una flessione dei ricavi del 2% a cambi correnti e una crescita organica del 3% a valuta costante, a circa 20,7 miliardi di euro. Che poi gli ad del colosso di Bernard Arnault, di Kering, e di tutti gli altri conglomerati abbiano deciso di chiamare questo rallentamento “normalizzazione della crescita”, non ne cambia gli effetti: si compra meno, i magazzini sono pieni e gli ordini alle nostre manifatture sono in qualche caso fermi. La moda ha problemi. I giornali ne parlano poco, il governo non sa neppure da dove cominciare.