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L'analisi

I veri tabù che il sud deve affrontare prima di esultare per i dati del pil

Nicola Rossi

Nonostante il rapporto Svimez, il pil pro capite del Mezzogiorno è rimasto stagnante dal 1980. Le analisi ottimistiche basate sul Pnrr sono illusorie e per risolvere la questione meridionale è necessario un periodo prolungato di crescita sostenuta e scelte politiche radicali

Fra l’inizio degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, il tasso di crescita del prodotto interno lordo per abitante nel Mezzogiorno d’Italia (in termini nominali, stante la difficoltà di misurare l’evoluzione territoriale del livello dei prezzi) ha superato il corrispondente tasso di crescita nazionale in circa un anno su tre. Lo stesso è accaduto, nello stesso lasso di tempo, al tasso di crescita del prodotto interno lordo per abitante nelle Isole. Lo stesso fenomeno si è, pressoché negli stessi termini, verificato fra la metà degli anni Novanta e i primi anni della decade in corso. Ciò nonostante, il prodotto interno lordo meridionale per abitante – pari, nei primi anni Ottanta, al 67,8% del prodotto interno lordo per abitante nazionale – era, nel 2022, pari al 66,6% della stessa grandezza. E lo stesso potrebbe dirsi – anzi, peggio, per il prodotto interno lordo insulare per abitante. Insomma, è francamente difficile trattenere una fragorosa risata quando si legge che “l’asse produttivo del Sud è il nostro nuovo Nord-Est”, per citare solo uno dei tanti entusiastici titoli che hanno segnato la pubblicazione dell’ultimo Rapporto SVIMEZ sull’economia e la società del Mezzogiorno.

 

 

Rapporto in cui si ipotizza per il 2023 (se non addirittura per l’intero triennio post-pandemico) un tasso di crescita del prodotto interno lordo meridionale superiore alla media nazionale. Per chiarezza, non si tratta qui di essere più o meno ottimisti o pessimisti sulla futura evoluzione del dualismo territoriale italiano. Molto più banalmente, si tratta infatti di capire che quel che al Mezzogiorno serve, da almeno oltre un secolo e mezzo e con la sola eccezione del ventennio successivo al secondo conflitto mondiale, è un lungo periodo – lustri, se non decenni – di crescita stabilmente più sostenuta della media nazionale (o meglio, del corrispondente livello di crescita dell’Italia settentrionale e centrale). Singoli episodi possono pure essere salutati con soddisfazione ma, come ci racconta l’ultimo mezzo secolo, lasciano il tempo che trovano. Anzi, lasciano il Mezzogiorno così come lo trovano. E per registrare tassi di crescita più elevati e protratti nel tempo sono necessarie scelte che sono spesso e volentieri opposte rispetto a quelle rovinose degli ultimi decenni e che, in buona misura, non hanno a che fare con il volume di risorse che anno dopo anno viene dedicato al Mezzogiorno.
 

L’ilarità diventa infatti incredulità quando si trova chi, osservando che i diversi ritmi di crescita osservati nei diversi territori nel 2023 sembrerebbero in misura significativa conseguire al ruolo degli investimenti pubblici, conclude sbrigativamente che “il PNRR funziona”. Per quanto si possa nutrire un certo grado di scetticismo sulla capacità degli investimenti pubblici di influire sul corso delle economie – e a chi scrive i dubbi non mancano al riguardo – sarebbe francamente impensabile che un programma ampio di investimenti pubblici non incida sui livelli di attività economica. Ma, ovviamente, non è questo l’obbiettivo del programma Next Generation EU e del PNRR che ne traduce i contenuti in italiano. Il PNRR mira, infatti, in primo luogo a innalzare i tassi di crescita potenziali (di lungo periodo), influenzando la dinamica della produttività. Incidendo sulla dinamica dell’offerta e non già (o quantomeno non solo) della domanda. E vanno lette innanzitutto in questo senso le meritorie iniziative che negli ultimi tempi hanno condotto a una riformulazione del Piano e a una revisione degli aspetti dai quali forse più traspariva la superficialità con cui il Piano era stato inizialmente formulato nella convinzione che ciò di cui l’Italia aveva bisogno era, keynesianamente, scavare buche e riempirle.
 

Fra le tante cose, il Mezzogiorno soffre – in maniera particolarmente acuta – anche della ripetuta tendenza a leggere in chiave strutturale episodi congiunturali di cui è piena la vicenda economica. È una tendenza che ingenera con regolarità la sensazione che la “questione meridionale” abbia trovato, per chissà quali motivi, una sua soluzione. Una sensazione illusoria che impedisce di leggere le forze, gli interessi e gli incentivi che da parecchi decenni sono all’opera nel Mezzogiorno d’Italia e che ne fanno e ne hanno fatto quel che purtroppo ancora è

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