Editoriali
Ancora tasse sugli extraprofitti? Anche no, grazie
La possibile nuova tassa sugli extraprofitti ha già causato un tracollo dei titoli bancari senza alcuna proposta concreta in vista Il governo cerca soldi, ma la strada della decrescita è lastricata di extratasse: il governo dovrebbe considerare alternative come politiche di liberalizzazione o una rigorosa spending review
È in arrivo una nuova tassa sugli extraprofitti? La notizia è uscita giovedì in simultanea su Repubblica (secondo cui nel mirino ci sarebbero banche e assicurazioni) e sul Fatto quotidiano (che aggiunge l’energia e il lusso). E, senza che vi sia sul piatto alcuna proposta concreta né una bozza di legge, ha già fatto del danno: in un contesto comunque delicato per le piazze finanziarie, negli ultimi due giorni i titoli bancari hanno subito un tracollo. La Consob al momento non sembra ravvisare alcuna anomalia, sebbene nel passato in situazioni simili si fosse mossa (per esempio quando alcune dichiarazioni di esponenti anti-euro della maggioranza gialloverde durante il governo Conte avevano agitato i listini). Ma, a prescindere dagli aspetti formali, questa reazione degli investitori dovrebbe indurre il governo alla cautela. E non solo per preservare la stabilità finanziaria ed evitare di offrire agli speculatori dei profitti, questi sì extra, su un piatto d’argento.
La questione è più complicata e, contemporaneamente, più semplice. È almeno da tre anni che, a ogni giro di boa, i fantomatici “extraprofitti” si stagliano all’orizzonte come la proverbiale pentola d’oro alla base dell’arcobaleno. Iniziò Mario Draghi, varando ben due imposte sugli extraprofitti energetici, una sulle fonti rinnovabili e l’altra sull’intero settore, con un bizzarro meccanismo basato sui saldi Iva (parzialmente censurato in una recente sentenza della Corte costituzionale). Poi arrivò Giorgia Meloni che, nella sua prima legge di Bilancio, impose sempre sulle imprese energetiche un’addizionale Ires del 50 per cento sugli utili eccedenti una certa soglia. E, infine, proprio un anno fa fece capolino l’imposta straordinaria sulle banche, poi corretta precipitosamente lasciando agli istituti la possibilità di evitarne l’impatto se avessero accantonato maggiori risorse nel loro patrimonio. Tutti questi balzelli hanno due cose in comune: il riferimento agli “extraprofitti” nella loro motivazione, e un gettito largamente inferiore alle attese (anche al netto dei ricorsi).
È probabile che sia solo una boutade, se non proprio un’invenzione giornalistica: d’altronde tutti sanno che il governo è alla disperata ricerca di gettito per tamponare una legge di Bilancio che si preannuncia lacrime e sangue. Sempre secondo le indiscrezioni, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, sarebbe contrario all’iniziativa. Nel caso, Giorgia Meloni farebbe bene ad ascoltarlo, magari fermandosi un attimo a riflettere sull’intera vicenda, anche perché questi prelievi straordinari finiscono per alimentare contenziosi e incertezza. Semplicemente, non è credibile una narrazione per cui le imprese – prima energetiche, poi bancarie e assicurative, ora forse anche del lusso e chissà chi altri (il M5s, ad esempio, punta su quelle farmaceutiche e della difesa) – chiudono i bilanci, anno dopo anno, facendo non profitti normali ma “extra”. Delle due l’una. O tali profitti non sono straordinari, ma semplicemente dietro la retorica degli extraprofitti si nasconde la volontà di alzare strutturalmente l’Ires: e allora l’esecutivo dovrebbe avere il coraggio di dire pane al pane e fisco al fisco, con buona pace delle promesse elettorali e della retorica politica di cui Meloni fa largo utilizzo. Oppure in questi settori si nascondono delle rendite, e allora lo strumento per aggredirle non è la tassazione, ma una aggressiva politica di liberalizzazioni: se così fosse, il governo avrebbe dovuto approfittare della legge annuale per la Concorrenza e lanciare un provvedimento gagliardo. Né l’esecutivo sembra pronto ad avviare una rigorosa spending review, senza la quale è semplicemente impossibile tenere i conti in ordine.
C’è una terza ipotesi, che non vogliamo neppure considerare: che il governo ritenga che ogni profitto sia “extra” e che le uniche imprese meritevoli di tutela siano quelle che perdono soldi. Detta così suona paradossale, ma non è esagerato dire che si tratta di una credenza assai diffusa a destra e a sinistra: le tasse sugli extraprofitti sono i mattoni di cui è lastricata la via della decrescita.