L'altro capitalismo italiano
Cooperative rosse, bianche e pure blu: un impero da 135 miliardi
Una potenza economica stufa di essere discriminata o sempre quelli di “Falce e carrello”? Dibattito riaperto, ora che il governo ha messo il veto a Unipol per aggiudicarsi il Monte dei Paschi
Le Coop siamo noi. Lo slogan è efficace, evoca lo spirito dei Probi Pionieri di Rochdale dai quali nacquero nel 1844 le cooperative. Ma vien subito da chiedersi: noi chi? Da destra si leva uno squillo: sono sempre loro, quelle di “falce e carrello”. A sinistra risponde un lamento: siamo numero uno nella grande distribuzione, numero due nelle assicurazioni, numero tre nelle banche, una potenza economica stufa di essere discriminata. La singolar tenzone s’è riaccesa dopo il veto che Chigi, nel senso del Palazzo, avrebbe posto a Unipol, avanguardia finanziaria del mondo cooperativo, nella gara finora tutta virtuale per aggiudicarsi il Monte dei Paschi di Siena oggi nelle mani del Tesoro, cioè del governo. L’ukaze sarebbe venuto da colui che sussurra (talvolta ad alta voce) alla potente, cioè Giovanbattista Fazzolari: non daremo mai la banca senese alla sinistra. Mai più, visto che per decenni era stata nelle mani del sistema Siena che pendeva sempre a sinistra, quella comunista, socialista, laico-repubblicana, massonica (così dicevano le malelingue). I vertici di Unipol gettano acqua sul fuoco, parlano di “voci” e ricordano di aver sempre detto che Mps non è nei loro progetti anche per “la presenza ingombrante dello stato”.
Sarà pure “falce e carrello” per riprendere la felice definizione del libro scritto da Bernardo Caprotti, il patron di Esselunga, ma il mondo cooperativo si vanta di saper stare sul mercato come e magari anche meglio dei capitalisti privati. Dunque, uno scontro ideologico e politico, lo stesso che divide di nuovo l’Italia, si trasforma in un conflitto a tutto campo nel quale sono in ballo montagne di quattrini. Ma prima di arrivare alle conclusioni, facciamo un passo indietro. Le Coop sono loro, ma loro chi? Sono i supermercati con un giro d’affari annuo di oltre 16 miliardi di euro e 59 mila dipendenti? Non solo. Esistono quattro centrali che raggruppano la stragrande maggioranza delle cooperative italiane: la Lega nazionale cooperative e mutue (Legacoop), la più antica e la più grande; la Confederazione delle cooperative, fondata nel 1919 basandosi sui principi della dottrina sociale della Chiesa; l’Agci (di ispirazione liberale); la Unci (nata negli anni 70 da Acli e Cisl). Nel 2011 nasce l’Alleanza delle cooperative italiane tra Lega, Confcooperative e Agci con l’obiettivo di farla diventare l’organismo che rappresenta tutto il movimento economico con radici nella politica. Il Censis ha condotto nel 2022 un’indagine sull’intero comparto e ha calcolato che le 50 mila cooperative di ogni genere e grado hanno un giro d’affari pari a 135 miliardi di euro e occupano 1,2 milioni di lavoratori. Se fosse un solo grande conglomerato industriale, sarebbe il numero uno in Italia.
Il volo del calabrone
E’ lunga la strada dagli scariolanti, gli operai che muniti di badile e carriola scavavano argini e canali per bonificare la Val Padana, fino alla Legacoop. Il mercato nelle sue ampie braccia accoglie molti tipi di impresa, quella famigliare, quella pubblica dove la proprietà è diffusa tra una miriade di azionisti, quella dove è lo stato a comandare, e quella cooperativa anch’essa a proprietà divisa tra i soci che esercitano i loro diritti in modo diverso rispetto alle altre formule. Il mercato abbraccia, ma non tutti seguono le sue regole, le famiglie spesso tendono a privilegiare il proprio guadagno rispetto all’azienda, nelle public company chi governa la società prende il sopravvento su chi la possiede, lo stato fa prevalere logiche politiche a quelle industriali. La cooperativa ha attraversato un lungo percorso e molti, anche tra chi non segue la linea Caprotti, si chiedono se abbia mai varcato il guado. Proviamo a gettare uno sguardo dal ponte.
E’ stato Ivano Barberini, eletto presidente di Legacoop nel 1996, a dire che le coop sono come i calabroni i quali, secondo le leggi della natura, non potrebbero volare, invece ronzano in alto e in basso senza problemi. Così, secondo le leggi dell’impresa industriale le coop non dovrebbero funzionare, invece lavorano e fanno profitto come se fossero aziende private. Con 4 mila cooperative, un fatturato da 30 miliardi di euro e 150 mila persone interessate, in Emilia Romagna c’è ancor oggi la più grande concentrazione di esperienze di successo (ad esempio nei comparti agroalimentare, distributivo, industriale e delle costruzioni), tanto che alcune aree della regione (ad esempio la provincia di Modena) rappresentano veri e propri distretti cooperativi. Ma anche le coop vanno in crisi. Una delle principali imprese di costruzioni si chiama Cooperativa muratori e cementisti (Cmc) e ha sede a Ravenna. La pandemia l’ha messa in ginocchio, l’intero settore dei grandi lavori è stato travolto da una catena di crisi eccellenti (da Impregilo ad Astaldi), una selezione e una concentrazione che ha fatto emergere Webuild. Per Cmc è arrivato il concordato e alla fine dello scorso anno è stato messo in campo un vero e proprio salvataggio con lo stato attraverso Invitalia e capitali privati forniti da Rimond, gruppo fondato e guidato da Giuseppe Antonio Chiarandà, con quartier generale a Milano e uffici in varie parti del mondo. A quali condizioni, dunque, il calabrone riesce a volare senza cadere fragorosamente a terra?
Tre anime in un sol corpo
Una confederazione coordina le coop bianche, una lega vorrebbe tenere le rosse in un sol pugno. Legacoop è la corazzata che da Bologna porta a Roma in via Guattani. Di lei bisogna occuparsi non solo per la sua force de frappe, ma per la sua rapida trasformazione che l’ha fatta entrare nel gabinetto dei poteri forti. Non è affatto facile spiegare davvero la sua natura, la sua struttura, la sua strategia. Che cos’è, una holding all’americana, uno zaibatsu alla giapponese o un partito nel partito? La caduta della Prima Repubblica non ha cancellato la storia, ma lo scioglimento delle forze politiche che avevano formato la costituzione allenta se non proprio spezza le vecchie cinghie di trasmissione.
Legacoop riunisce oltre 10.000 imprese cooperative, in tutte le regioni e in tutti i settori con oltre 450.000 dipendenti e 7.400.000 socie e soci, per un valore della produzione superiore a 86 miliardi di euro. Dal 4 marzo 2023, c’è alla guida Simone Gamberini, bolognese, 51 anni, già direttore generale di Coopfond, il fondo mutualistico della Lega. Negli anni precedenti è stato direttore di Legacoop Bologna e, dal 2004 al 2014, sindaco di Casalecchio di Reno per il Partito democratico. Passando in rassegna l’album dei presidenti troviamo fior di politici comunisti e postcomunisti. Silvio Miana ha guidato la Lega per un decennio dal 1965 al 1974, senatore del Pci, membro della direzione del partito (lo ha cooptato Palmiro Togliatti insieme a Luciano Lama e Pio La Torre). Come segretario del partito emiliano anticipa il compromesso storico: nel 1958 in un’osteria di Magreta vicino a Modena si incontra con il segretario regionale della Dc, Ermanno Gorrieri, per aprire una nuova fase di collaborazione sui temi dello sviluppo regionale, nasce così il modello emiliano basato su questa dialettica hegeliana di competizione e cooperazione (appunto) tra gli opposti. Miani apre la strada a una vera e propria svolta imprenditoriale con Unipol nelle assicurazioni, Coop Italia e Conad nella grande distribuzione. Presidenti come Onelio Prandini, Lanfranco Turci, Giuliano Poletti, sono stati tutti dirigenti politici del Pci e dei partiti che ne hanno raccolto l’eredità e le spoglie, nonché uomini di governo (sottosegretario Turci, ministro Poletti).
E’ l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, invece, a ispirare le coop bianche, ma la confederazione arriva solo all’indomani della Grande guerra, nel 1919. Il centenario è stato celebrato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che dei cattolici in politica è oggi il massimo esponente. Nel 1927 anche Confcooperative viene sciolta dal fascismo. Rinasce nel 1945 sotto la presidenza di Augusto De Gasperi, fratello minore di Alcide, il leader e fondatore della Democrazia cristiana. Dunque, anche per le coop bianche funziona a lungo il collateralismo politico in parallelo con quel che avviene nelle coop rosse. Per entrambe la svolta avviene negli anni 90 del secolo scorso. Confcooperative ha un forte radicamento agro-alimentare e da quel mondo proviene l’attuale presidente Maurizio Gardini, forlivese, laureato in Scienze agrarie, presidente di Conserve Italia, la più grande coop agricola che associa 14 mila agricoltori ed è sul mercato con marchi come Valfrutta, Cirio, Yoga, Derby Blue e Jolly Colombani. Anche nella Lega provengono dall’interno i dirigenti manager, come Barberini, primo italiano a guidare l’Ica, International Cooperative Alliance, che rappresenta 318 organizzazioni in 112 paesi.
L’internazionale cooperativa
Il primo sabato di luglio, a partire dal 1995, è stato dichiarato dall’Onu giornata mondiale della cooperazione. Barberini chiama all’Ica come direttore generale Iain Macdonald, dirigente dello United Kingdom’s co-operative group, che poteva vantare una lunga e consolidata esperienza. D’altra parte è l’Inghilterra la culla del movimento con lo spaccio di Rochdale aperto per difendere il valore reale del salario e il tenore di vita dei soci. Pochi anni dopo, in Germania, nascevano le prime cooperative di credito del tipo Schulze-Delitzsch (nelle aree urbane) e Raiffeisen (nelle zone rurali) per lottare contro l’usura. E poi in Francia gli operai, in Danimarca i contadini, in Italia a Modena nel 1856 i tipografi fondano la prima società di mutuo soccorso. Queste associazioni a carattere difensivo si diffondono ovunque dopo l’unità d’Italia finché non arrivano le prime società di produzione e lavoro. L’epicentro è sempre l’Emilia Romagna, là dove i conflitti tra braccianti e agrari saranno più duri, feroci nei primi anni del Novecento e subito dopo la Prima guerra mondiale. E’ là che dilaga il fascismo anche se il romagnolo Mussolini parte da Milano. Il salto era avvenuto alla fine dell’Ottocento, quando nel 1891 nasceva a Milano la prima Camera del lavoro e l’anno successivo veniva fondato a Genova il Partito dei lavoratori poi chiamato Partito socialista.
Il legame politico-ideologico in Italia è più forte e duraturo che altrove. In Gran Bretagna è Robert Owen, non Karl Marx, a ispirare le cooperative così come l’intero movimento operaio. Il primato è sindacale, non partitico, prima le Trade Unions poi il Labour Party, nessun segretario laburista ha mai potuto affermarsi senza o contro l’organizzazione sindacale, lo stesso Tony Blair ha allentato il cordone ombelicale, ma non lo ha tagliato e comunque ha dovuto combattere una dura battaglia nel sindacato e nel partito per affermare la linea riformista che portava a una maggiore autonomia. In Germania e nei paesi del nord partito socialdemocratico e sindacato (per lo più unico) si muovono in parallelo e nel secondo dopoguerra si afferma una sostanziale cogestione che favorisce la sempre più consistente trasformazione imprenditoriale delle cooperative.
La Francia è un modello ibrido. Come in Italia, il partito comunista, il principale sindacato, la Cgt e le cooperative rosse stringono un patto di ferro. Ma nello stesso tempo si sviluppa un forte movimento nelle campagne che diventerà una potenza economica dalla forte influenza politica al centro e a destra. Basti dire che una delle maggiori banche francesi ed europee, Crédit Agricole, nasce dalle casse rurali istituite a fine ’800. Ancor oggi il gruppo è strutturato su tre livelli: una rete di 2.447 Casse locali; 39 casse regionali che, attraverso la holding SAS Rue de la Boétie, detengono la quota maggioritaria di Crédit Agricole S.A. (società anonima); il Crédit Agricole S.A. società di capitali quotata alla borsa di Parigi. La holding delle casse rurali detiene il 56 per cento del capitale, quindi nomina i gruppi dirigenti. Buona parte dell’assistenza sociale nasce dalla mutualité e il sistema sanitario resta basato sulle mutue: la Fmf, la federazione nazionale, ne raggruppa ben 500. In Francia l’ideologo, colui che voleva organizzare “coalizioni di operai”, era Camille Desmoulins, ghigliottinato dal Terrore. Poi è arrivato Owen. Nonostante il marxismo abbia fatto una lunga strada (leninismo compreso), cooperative e mutue sono rimaste compagne di strada dei socialisti. In Italia, dove il ritorno dei cattolici in politica aveva dato nerbo alle organizzazioni bianche vicine al Partito popolare, la cooperazione è entrata anche nella costituzione repubblicana.
L’articolo 45 recita: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. Ma quali sono questi mezzi più idonei? Il primo è un privilegio fiscale che rimane anche se meno di un tempo. Il meccanismo è complicato, comunque almeno il 30 per cento è destinato alla riserva legale; la quota dell’utile tassato è del 40 per cento in generale, sale al 65 per cento per le coop di consumo e scende al 20 per cento per quelle agricole, le coop sociali non pagano l’imposta e qui s’annida spesso l’imbroglio. I vantaggi sono anche di natura sistemica, anche se non mancano le “contraddizioni in seno al popolo”. Poi ci sono le esternalità come le chiamano gli economisti, in pratica il legame con la politica, soprattutto a sinistra. E’ quel che faceva infuriare Caprotti il quale a sua volta cercava “esternalità” a destra.
Via Stalingrado e piazzetta Cuccia
L’ingresso nel “sancta sanctorum” della finanza italiana avviene attraverso le assicurazioni. Anche i compagni hanno un’automobile e hanno bisogno di una polizza senza essere preda degli squali finanziari. Così comincia a nascere nei primi anni 60 del secolo scorso una ragnatela di iniziative soprattutto in Emilia. La Lega pensa che siano troppo piccole e disperse e propone di metterle insieme. Finché nel 1963 non si presenta una ghiotta occasione: la Lancia, acquistata nel 1958 dal cementiere Pesenti, ha una compagnia che si chiama Unica polizza (in sigla Unipol) perché il suo business è solo la garanzia Rca (diventata obbligatoria nel 1971), che viene offerta in omaggio a chi compra una vettura. Una bella idea, ma si rivela troppo dispendiosa e Pesenti mette in vendita la società che viene rilevata da una cordata di cooperative emiliane garantite dalla Lega. E’ un mestiere difficile e in parte nuovo, con la crisi petrolifera c’è il rischio di andare in bancarotta. Nel 1973 intervengono i sindacati tedeschi che posseggono la loro compagnia Volksfürsorge la quale compra un bel pacchetto di quote e piazza quattro suoi rappresentanti nel consiglio di amministrazione dove resterà fino al 1988. Intanto anche la Cisl, il sindacato cattolico, si accoda (nel 1975) offrendo così un’ancor più ampia platea. Unipol assicura gli iscritti ai sindacati e quelli dei partiti di sinistra, una clientela vasta e sicura anche se non particolarmente opulenta, che comincia ad assottigliarsi negli anni 80. E nel 1991 arriva la svolta. Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti imprimono un cambio di marcia. Dai danni si passa al ramo vita. Poi c’è il credito. Nel 1998 acquisisce la Banca dell’economia cooperativa ribattezzata Unipol banca, nel 2001 c’è l’accordo con il Monte dei paschi di Siena, nel 2005 tenta la scalata alla Bnl con l’idea di creare un polo unico insieme al Montepaschi. Una sconfitta catastrofica, Consorte si dimette, accusato di aggiotaggio, associazione a delinquere e appropriazione indebita per aver partecipato alla scalata della Popolare di Lodi all’Antonventa; otto anni dopo viene assolto con formula piena perché “il fatto non sussiste” (sic!), sentenza confermata dalla Cassazione. Arriva alla presidenza Pierluigi Stefanini e come capo azienda un banchiere, Carlo Salvatori, che rimette in sesto la compagnia. Bnl passa alla francese Bnp Paribas che se la tiene ancora stretta. Unipol diventa un gruppo finanziario e nel 2010 si apre l’era Cimbri.
In via Stalingrado la compagnia di assicurazioni aveva piazzato il suo quartier generale nel 1981, in piazzetta Cuccia e poi in via Solferino entra nel 2012. Nel frattempo costruisce una nuova sede, poi una torre a Bologna e adesso una a Milano, per non essere da meno di Unicredit, Intesa, Generali, le tre grandi della finanza italiana. E’ l’immagine stessa della grande trasformazione. Carlo Cimbri è un manager, ci tiene a essere definito così, anche se non lo hanno plasmato da McKinsey. Qualcuno l’ha chiamato “il Marchionne delle polizze” e non solo per la clamorosa decisione di abbandonare l’Ania, l’equivalente della Confindustria. Nato a Cagliari sotto il segno dei Gemelli il 31 maggio 1965, Cimbri si laurea in Economia a Bologna, nel 1990 viene assunto da Unipol e sale una dopo l’altra le scale che portano in cima. Il grande balzo in avanti grazie al quale Unipol diventa protagonista di primo piano avviene nel 2012, quando il gruppo assicurativo di Salvatore Ligresti & Family, la Fondiaria Sai, si trova sull’orlo del fallimento. Grazie a un accordo con Mediobanca e dopo un lunga battaglia con la cordata che faceva capo a Matteo Arpe, Cimbri ha la meglio. In questo modo dà un sostegno non indifferente alla stessa banca fondata da Enrico Cuccia fortemente esposta verso il gruppo Ligresti (circa un miliardo e cento milioni di euro). La politica lascia fare, al governo c’è Mario Monti e Silvio Berlusconi non può difendere, nemmeno volendo, il vecchio amico don Salvatore.
Il boccone Fondiaria Sai è bello grosso, potrebbe rivelarsi indigesto. Attraverso una serie di aumenti di capitale correlati, in due anni Cimbri ingloba la compagnia. Nel 2014 nasce UnipolSai, controllata per l’85 per cento dal gruppo Unipol che colloca nella nuova società le partecipazioni in Bper (la vecchia Banca popolare dell’Emilia Romagna), Banca Sai, Linear assicurazioni, UniSalute e tutti gli altri pacchetti del polo di bancassurance, tra i quali la Banca popolare di Sondrio. Dieci anni dopo avviene la completa fusione e UnipolSai viene cancellata in borsa. Lavoratore instancabile, meticoloso, determinato, con uno stile diretto, franco, talvolta persino brusco, segue passo passo tutte le fasi. All’inizio si trova con quattro società quotate (Unipol, Premafin, Fondiaria Sai e Milano) e ben otto categorie di azioni tra ordinarie e risparmio. Al termine del percorso, c’è solo la holding di controllo con le sue partecipate. Dal 2014 al 2016, con i cospicui dividendi prodotti (circa 1,5 miliardi), le coop azioniste vengono ripagate per gli aumenti di capitale che ammontano a 1,7 miliardi. Unipol Banca, ripulita di crediti deteriorati, è stata ceduta alla Bper (Banca Popolare dell’Emilia Romagna) controllata a sua volta da Unipol. Assorbendo l’impero di carta dei Ligresti, Cimbri ha preso il 4,9 per cento del Corriere della Sera, poi è diventato socio di Mediobanca con quasi il 2 per cento, ma ha ereditato anche un vasto patrimonio di mattoni (3,7 miliardi di euro) e un discreto pacchetto di alberghi. Unipol continua a espandersi in campi diversi ed entra anche nelle autostrade con il telepedaggio. Nel 2020 diventa sponsor della serie A di basket, una delle miriadi di presenze nello sport, dalla pallavolo al baseball fino alla Ducati e a Luna Rossa. Ma non tralascia la cultura (con Feltrinelli) né l’ecologia con Legambiente.
Il terzo polo
Adesso la nuova dimensione è quella bancaria o meglio la bancassurance come la chiamano i francesi, ossia il legame stretto tra il mestiere di chi raccoglie i risparmi per poi prestarli, e quello di chi vende polizze. Il controllo di Bper (la quota Unipol è salita dal 19 al 24 per cento) più la Popolare di Sondrio (ha il 19,7 per cento), forse il Montepaschi che il Tesoro deve vendere “a un partner italiano” come ha dichiarato il ministro Giorgetti: non si fa che parlare di un nuovo soggetto bancario, grande abbastanza da incunearsi nel duopolio dominante, cioè tra Intesa e Unicredit, con Unipol protagonista. Un percorso a ostacoli che diventano più alti con la destra al governo, la quale batte la grancassa sui legami a sinistra e su una proprietà blindata dalle coop rosse. Quotata in borsa a Milano, Unipol capitalizza 6,57 miliardi di euro, Generali poco più di 36 miliardi, ma in mezzo non c’è nulla, Poste, Allianz, Intesa, Axa inseguono. La compagnia assicurativa ha chiuso il 2023 con un utile netto di 1,33 miliardi di euro. A fine 2023 il patrimonio netto consolidato di Unipol era pari a 9,8 miliardi di euro. Nel primi sei mesi di quest’anno l’utile è aumentato del 6,7 per cento.
Il calabrone è diventato farfalla? La struttura proprietaria è stata semplificata, ma le coop sono in cima, sempre loro. Un tempo la Holmo, formata da una galassia di cooperative, possedeva il pacchetto principale della finanziaria Finsoe (dove convergevano le coop Adriatica, Nordest e altre 24) che con il 31,4 per cento controllava il gruppo Unipol. Cimbri ha accorciato la catena azionaria eliminando la Finsoe. Oggi il controllo è in mano direttamente alle diverse cooperative con un ruolo maggiore per Coop Alleanza 3.0, prima in Europa per numero di soci, nata dalla fusione tra Adriatica, Estense e Nordest, che possiede il 22,24 per cento e, attraverso il veicolo finanziario Koru, creato ad hoc insieme ad altre cooperative, ha acquistato un altro un per cento. Poi vengono la Nova Coop di Vercelli (6,8 per cento del capitale), Holmo (6,7 per cento), la Coop Liguria (3,57 per cento) e la Coop Lombardia. Se calcoliamo i diritti di voto, il mondo coop arriva al 62 per cento. La Unipol non è contendibile. Bisogna dire che non è l’unica tra le società quotate, anzi. Nonostante l’Italia abbia una borsa rachitica (è pari al 39 per cento del pil, in Germania il 52 per cento, in Francia il 110 per cento) si sta cercando a colpi di leggi e normative varie di ingessare il mercato, ridurre la concorrenza e anche l’apertura dell’azionariato. Che l’arrocco riesca è dubbio, visto che ormai il capitale è sempre più fluido, in mano ai fondi di investimento, un tempo chiamati locuste oggi private equity. Le famiglie da una parte e le cooperative dall’altra vogliono costruire un argine a quello che Felix Rohatyn, un grande finanziere americano diventato poi ambasciatore a Parigi, aveva chiamato “il capitalismo popolare”. Così, tra farfalle, locuste, sparvieri, l’Italia resta il paese dei calabroni.
sindacati a palazzo chigi