L'analisi
Le buone notizie di un mercato del lavoro a quota 24 milioni
Occupati, nuovo record: boom degli autonomi e bene le donne. L'Istat fotografa una crescita pressoché ininterrotta. Ma resta il nodo legato alla produttività
Il mercato del lavoro non smette di crescere e dai dati diffusi dall’Istat, riferiti a luglio 2024, siamo venuti a sapere che ha inanellato un nuovo record. Questa volta addirittura tondo, visto che ha superato per la prima volta la quota di 24 milioni di occupati toccando così il 62,3 per cento di tasso di occupazione. Sappiamo tutti che storicamente la partecipazione al lavoro in Italia è bassa, sia in generale sia nel confronto con i partner europei, ma guai a banalizzare i numeri che ci arrivano. Anche perché non stiamo parlando di un singolo referto mensile bensì di una crescita pressoché ininterrotta.
Occorre dunque che impariamo a discettare di mercato del lavoro mettendo da parte alcuni errori ricorrenti, a cominciare da quello di politicizzare il dato e di rapportarlo all’azione del governo in carica. Secondo errore da non fare è quello di riferire l’evoluzione del mercato del lavoro troppo strettamente ai provvedimenti adottati dagli esecutivi perché, come dice l’economista dell’Ocse Andrea Garnero, “le policy hanno effetti sulla qualità dei contratti adottati e non sulla quantità dei posti di lavoro”. Di conseguenza è utile adottare un suggerimento avanzato dallo stesso Garnero che invita a guardare i dati in un’ottica decennale, visto che l’incremento di occupati è cominciato già nel 2013 e poi ha subito un’accelerazione negli ultimi quattro anni. Se inforchiamo questi occhiali ci apparirà ancora più assurdo il fatto che, a fronte di un successo del mercato del lavoro, rischiamo di andare a votare un referendum sul Jobs act che accusa quel provvedimento di aver causato un esito opposto: aver distrutto occupazione. Detto della sana metodologia da adottare per discutere di occupazione è interessante analizzare i vari spezzoni di questo mercato.
A luglio 2024 sono diminuiti di appena 12 mila unità, ma i posti fissi sono stati finora i veri protagonisti dell’avanzata di cui sopra. In un anno sono aumentati di 437 mila unità (+2,8 per cento) e la causa principale di questo fenomeno è stata attribuita alle politiche della manodopera adottate dalle aziende. Che guardano con crescente preoccupazione alla demografia, hanno difficoltà a rinnovare le competenze e quindi stabilizzano tutti i dipendenti che servono alla pianta organica di oggi e a quella di domani. In parallelo, si registra una decisa riduzione dell’area del lavoro a tempo determinato. Non c’è stata la precarizzazione delle assunzioni, che in troppi avevano vaticinato con una certa superficialità: in un anno quei contratti sono diminuiti di 196 mila unità (-6,6 per cento). Non è finita. Si era anche pronosticato un declino del lavoro autonomo e invece i dati ci dicono di un aumento di occupati indipendenti di 75 mila unità in un mese.
Conosco l’obiezione: ci sarà stato un ritardo statistico nell’inputazione dei dati. E invece no, anche in questo caso la tendenza è netta perché nell’ultimo anno gli autonomi sono aumentati di 249 mila unità (+5 per cento). Cioè hanno risalito la quota simbolica dei 5 milioni e sono arrivati sopra quota 5,2. Siccome continuiamo a saperne ancora troppo poco degli spostamenti e delle trasformazioni del lavoro autonomo, non siamo in grado di aggiungere molto altro se non che i dati dell’osservatorio Mef sulle partite Iva nel primo trimestre 2024 segnalavano nuove aperture per 184 mila unità (+2,8 per cento). In passato si era creduto che la componente del lavoro autonomo potesse crescere in abbinata a una diminuzione dei posti fissi e invece non sta andando proprio così. Il lavoro autonomo sale mentre scende la componente cosiddetta precaria, non quella fissa. C’è un rapporto causa-effetto tra le due tendenze? Visto che la fascia di età dei nuovi occupati di luglio è sopra i 35 anni saremmo autorizzati a sostenere che non si tratta di giovani al primo impiego obbligati a munirsi di partita Iva per lavorare, quanto di soggetti con competenze già maturate, che navigano nel mercato del lavoro con rotte diverse dal passato. Ma, va detto, è un’ipotesi tutta da vagliare.
A conferire ai dati di luglio un’intonazione inclusiva c’è un’altra tendenza positiva. Cresce l’occupazione femminile che arriva a un tasso di partecipazione del 54 per cento. Anche la disoccupazione rosa è ai minimi (6,8 per cento) e si riduce così la distanza con l’analogo dato riferito agli uomini. Tra tante buone notizie ne va però segnalata anche una negativa: la componente degli inattivi è in crescita e vede al suo interno la prevalenza di giovani e donne. Non siamo stati in grado di fare i conti con i Neet.
Reso alla statistica lo spazio che le spetta, la domanda che emerge si può sintetizzare così: perché a fronte di un mercato dell’occupazione successfull il lavoro resta una componente debole dell’economia reale? La risposta è purtroppo facile: l’aumento dell’occupazione da solo non è un triangolo, gli altri due lati – quelli della produttività e dei salari – non hanno la stessa consistenza con tutte le conseguenze che ben conosciamo. La quantità del lavoro è buona, la qualità purtroppo no.