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La pezza del dragone

La Banca popolare cinese tenta di rianimare l'economia, ma la crescita di Pechino "è un'illusione"

Riccardo Carlino

Dalla Pboc arriva un imponente pacchetto di incentivi e risorse per stimolare la ripresa, i mercati finanziari e i consumi interni: l'unica ancora di salvezza per un sistema economico che affronta l'esaurirsi di un ciclo di sviluppo fondamentale. Ma alla base "non si vede alcuna prospettiva strategica", dice Giorgio Arfaras

L'ultima mossa della Banca popolare cinese (Pboc) è chiedere alle banche di tagliare i tassi di interesse su tutti i prestiti immobiliari fino a 30 punti al di sotto del tasso primario, entro il prossimo 31 ottobre. Un'iniziativa ben più generosa dei tagli da 25 e 50 punti base applicati da Bce e Fed, che si inserisce in un ampio quadro di misure finalizzate alleggerire il peso dei mutui sulle famiglie, nel tentativo di portare la crescita del pil al 5 per cento entro fine anno. Alla base della precaria salute dell’economia cinese c’è il brusco rallentamento dello sviluppo immobiliare aggravatosi l’anno scorso con il tracollo di Evergrande, colosso del real estate con un debito salito a 300 miliardi di dollari. La crisi ha indebolito la fiducia dei consumatori e delle famiglie cinesi, che negli anni hanno investito circa il 70 per cento dei risparmi proprio nell’immobiliare

 

                        

“La grande crescita cinese non era tanto diversa da quella italiana del miracolo economico: i contadini vanno nelle città e lavorano nelle fabbriche, la cui produttività aumenta” spiega l’economista Giorgio Arfaras, secondo cui “è finito un ciclo di sviluppo. Finendo l’urbanizzazione si esaurisce la crescita, non trainata dalle esportazioni ma dagli investimenti in infrastrutture: città che nascono dal nulla con milioni di abitanti, enti locali che vivono dei soldi dei permessi di costruzione dati al settore immobiliare, e così via”. 

Nella scorsa settimana la Pboc ha tagliato dello 0,5 per cento il tasso di riserva obbligatoria per le banche, consentendogli di erogare nuovi prestiti per un trilione di yuan. Stando all’agenzia Reuters, Pechino è a lavoro per nuove risorse a sostegno dei mercati finanziari: un programma di contratti swap da 500 miliardi di yuan da cui potranno attingere fondi, assicuratori e broker per acquistare azioni cinesi, insieme ad altri 300 miliardi di yuan per finanziare acquisti e buyback da parte delle società quotate sulle Borse locali. A ciò si legano altri due piani di quasi 300 miliardi di dollari, per sostenere la natalità e risanare i bilanci degli enti locali, appesantiti dai crediti inesigibili con il settore immobiliare.

“L’economia cinese è sospesa in un grande vuoto e l’iper intervento statale prova a metterci una pezza”, continua Arfaras, “senza la crescita da investimenti per infrastrutture e non potendo contare sulle esportazioni (a causa dei forti dazi che stanno applicando tutti) non resta che puntare sulla crescita da consumi, ma non è detto che possa reggere così tanto”. Alla base dei dubbi riguardo la capacità dei consumi di assorbire l’intera crisi della domanda interna c’è il rischio deflazione, in quanto “nel momento in cui ci si aspetta che i prezzi calino, si consuma meno oggi perché si aspetta di spendere meno domani”. Ma pesano anche le carenze di fondo: “Si chiama tecnicamente risparmio precauzionale, lei risparmia molto per prevenire eventi negativi. Nel momento in cui non esiste uno stato sociale cinese (con sanità pubblica e servizi) si preferisce risparmiare per affrontare emergenze future”. 

Fra le misure annunciate c’è anche un assegno mensile da 800 yuan (114 dollari) per bambino alle famiglie con due o più figli. Potrebbe stimolare un aumento della natalità, ma solo nel lunghissimo termine: “Mettiamo che improvvisamente con questi soldi i cinesi si mettano a fare moltissimi figli, si dovrà aspettare almeno altri 20 anni per un’esplosione di forza lavoro con effetti di bilanciamento dell’invecchiamento”. 

Con questo pacchetto di incentivi, secondo Arfaras “si ha un’illusione di crescita”, e i mercati lo sanno: “Se fossi ancora un gestore venderei tutti i titoli cinesi che ho. I prezzi sono improvvisamente esplosi, tornati ai livelli maggiori di qualche anno fa, rispetto a un’economia di cui non si vede alcuna prospettiva strategica. Mi sembrerebbe un regalo potermi liberare di quei titoli”.

Un discorso che può valere solo per gli investitori esteri: “Un gestore cinese sarebbe magari obbligato a tenere quei titoli. Bisogna vedere se il sistema cinese è completamente libero oppure no, ma dubito ci sia un sistema finanziario in stile Wall Street”.