Nobel 2024

Acemoglu, Johnson, Robinson: l'economia che studia il potere

Marco Leonardi

Il futuro della tecnologia e dell’IA dipende anche dai rapporti di forza politici nella società: il prestigioso riconoscimento ci ricorda quanto l'innovazione sia un'importante leva di sviluppo, ma solo se l'interazione tra potere e istituzioni ne definirà l'indirizzo a beneficio di lavoratori e cittadini

Il premio Nobel per l’Economia è stato assegnato a Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson per i loro “studi sulla formazione delle istituzioni e la loro influenza sulla prosperità” nei vari paesi. Lo stato di diritto, il mercato e più in generale le istituzioni “inclusive” sono determinanti per lo sviluppo di una società. Questi temi sono centrali nel libro “Why Nations Fail” di Acemoglu e Robinson. Ma più recentemente, Acemoglu ha pubblicato un altro libro  dal titolo “Power and progress” con l’altro vincitore del Nobel di quest’anno, Simon Johnson, su un altro tema fondamentale per la crescita economica e la democrazia. E cioè lo sviluppo tecnologico, in particolare nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale (IA). Da 30 anni Acemoglu si occupa di “directed technical change” ovvero degli incentivi che muovono le nuove scoperte tecnologiche. Il punto è che la direzione che prendono le scoperte tecnologiche non è casuale, ma condizionata dalle istituzioni (governi, imprese e sindacati, il potere “the power” appunto) e dalla cultura prevalente impersonata da politici, imprenditori, intellettuali

 

                                   


La direzione può essere di due tipi: sostitutiva della forza lavoro umana o complementare a essa. Questo principio di carattere generale vale anche per la IA, che è oggetto di numerosi studi da parte di scienziati di diverse specialità, ma quando si parla di effetti sull’occupazione forse gli economisti devono almeno poter dire la loro. Acemoglu e Johnson partono da una disamina storica degli effetti dell’innovazione sull’occupazione nel corso dei secoli per finire con una riflessione sull’IA che diversamente dalle innovazioni precedenti ha anche un effetto sulla democrazia, cioè sulle istituzioni che la dovrebbero regolare.


La storia dell’innovazione

La Rivoluzione industriale ebbe inizio nel XVIII secolo in Gran Bretagna, dove la maggior parte della popolazione aveva scarso potere politico o sociale. Prevedibilmente, in questa società a due livelli, la direzione in cui si muovevano il progresso e la crescita della produttività inizialmente determinò un peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. La situazione iniziò a cambiare soltanto quando si verificò un mutamento nella distribuzione del potere sociale, che modificò il corso della tecnologia. Altrettanto importanti furono le istituzioni e le norme che assicurarono che l’incremento della produttività si traducesse in crescita dei salari.


Nel XX secolo la tecnologia avanzò ancora più decisa, creando le condizioni per una prosperità diffusa, non solo a livello nazionale, ma anche in buona parte del mondo, via via che le tecniche e le innovazioni americane si diffondevano a livello globale. Ma oggi le conseguenze sono molto diverse. Più o meno a partire dal 1980, le istituzioni e le norme che regolavano la condivisione della rendita crollavano e la tecnologia veniva indirizzata prevalentemente verso l’automazione (cioè la sostituzione dei lavoratori). Tutto questo avveniva prima dell’ultima ondata dell’IA. Abbiamo imboccato la via del ritorno a una società a due livelli (le nuove elite e la massa dei lavoratori poco qualificati) ben prima degli anni dieci di questo secolo. Ma non doveva andare per forza così: lo si vede dal settore automotive, in cui la tecnologia ha preso strade diverse in Germania e Giappone rispetto agli Stati Uniti. Anche se l’automazione dell’industria tedesca è stata più veloce, con un numero di robot per lavoratore superiore al doppio rispetto agli Stati Uniti, le aziende si sono impegnate a riqualificare e ricollocare gli operai affidando loro nuove mansioni, spesso in impieghi tecnici, di supervisione o d’ufficio. 

 

                                              

 

Questa non è una storia tutta tedesca. Le aziende giapponesi, che dovevano far fronte a un’analoga diminuzione della forza lavoro, adottarono i robot in tempi ancora più rapidi, ma come quelle tedesche associarono all’automazione la creazione di nuove mansioni. Inoltre, investirono in software per la pianificazione flessibile, la gestione della catena logistica e le attività di progettazione.

Con l’IA assistiamo a un’accelerazione di questo processo. La direzione che sta prendendo è quella della sostituzione dei lavoratori. Tutta l’enfasi è su creare nuovi modi di automatizzare il lavoro, risparmiare sui costi del lavoro, escludere gli esseri umani mentre si sostiene di aumentare la produttività. Ma l’automazione basata sull’IA spesso non è in grado di aumentare più di tanto la produttività. Non è certo il modo di generare prosperità diffusa, eppure arricchisce le big 7 Usa, mentre sottrae potere ai lavoratori e apre nuove possibilità di monetizzare le informazioni sulle persone per le imprese tecnologiche che fondano il proprio business sulla pubblicità digitale


E’ l’“illusione dell’IA”, così la chiamano gli autori, destinata a rafforzarsi nel prossimo decennio con lo sviluppo di algoritmi più potenti, l’espansione della connettività globale  e la  connessione alla nuvola di nuovi dispositivi, che consentono una più vasta raccolta di dati sui consumatori. Invece le tecnologie digitali possono integrare le capacità umane: migliorando la produttività dei lavoratori, creando nuove mansioni con l’ausilio dell’intelligenza delle macchine, fornendo informazioni migliori e più utili per il processo decisionale.

 

Che fare oggi?


Le tre leve politiche (ecotasse, sovvenzioni per la ricerca e normative), assieme alle pressioni esercitate dai consumatori e dalla società civile, hanno determinato un aumento delle innovazioni nel campo delle energie rinnovabili. La stessa combinazione di elementi può essere efficace anche ai fini del riorientamento della tecnologia digitale. Ma mentre nella transizione ecologica ci sono sistemi di limitazione e scambio di emissioni, sovvenzioni per le rinnovabili e le auto elettriche, determinare come vengono usate le diverse tecnologie digitali e gli effetti che producono è molto più difficile. Per esempio, le nuove tecnologie che consentono di monitorare con maggiore efficienza le prestazioni dei loro sottoposti potrebbero essere considerate complementari agli esseri umani, perché permettono ai manager di svolgere nuove mansioni e ampliare le loro capacità. Al tempo stesso possono intensificare la sorveglianza o eliminare delle mansioni che venivano svolte da altri colletti bianchi.


Le tecnologie che creano nuove mansioni per i lavoratori tendono invece ad accrescere la quota del lavoro. Su queste basi, si possono promuovere le queste, erogando sovvenzioni per il loro impiego e il loro sviluppo. Ma i problemi attuali risiedono nell’enorme potere economico, politico e sociale delle grandi imprese, soprattutto nel settore tecnologico. La concentrazione del potere delle aziende mina alle basi la prosperità diffusa perché limita la condivisione dei miglioramenti apportati dal progresso tecnologico. 


Si possono prevedere degli accorgimenti. Ad esempio la pubblicazione di tutte le riunioni e le interazioni di politici e alti funzionari con lobbisti e manager del settore privato. Un’agenzia governativa potrebbe elaborare linee guida chiare per prevenire le forme più intrusive di sorveglianza e raccolta dei dati sui dipendenti, e altre agenzie potrebbero regolamentare in modo analogo la raccolta dei dati sui consumatori e i cittadini. Il governo potrebbe anche decidere di non consentire lo sfruttamento di brevetti su tecnologie destinate a sorvegliare i lavoratori e i cittadini, compresi quelli depositati in Cina

 

                     

 

Un’imposta sull’automazione invece non è praticabile. Ciononostante, se le sovvenzioni e altre politiche non saranno in grado di riorientare gli sforzi tecnologici, in futuro potrebbe essere necessario prendere in considerazione misure di questo tipo. Ma un riequilibrio dell’imposizione fiscale è necessario: un’azienda che investe in impianti di automazione o software oggi versa un’imposta inferiore al 5 per cento, 20 punti percentuali in meno delle imposte che è tenuta a versare quando assume lavoratori per svolgere le stesse mansioni.

Lo smantellamento dei colossi di per sé non è sufficiente, perché non orienterà la tecnologia in una direzione diversa. Prendiamo per esempio Facebook, che con tutta probabilità sarebbe la prima a essere presa di mira dall’Antitrust a causa dell’acquisizione di WhatsApp e Instagram. Se l’azienda fosse spacchettata e queste due app diventassero entità distinte, la condivisione dei dati fra loro cesserebbe, ma i loro modelli d’impresa resterebbero invariati.

Lo stato non è il motore dell’innovazione, ma può svolgere un ruolo fondamentale e riorientare il progresso tecnologico mediante imposte, sovvenzioni e regolamentazione. L’individuazione delle esigenze specifiche, associata alla leadership dello stato, è essenziale in molti ambiti della ricerca di frontiera, perché focalizza l’attenzione dei ricercatori sulla definizione di obiettivi o aspirazioni realizzabili. Sicuramente è stato così per gli antibiotici. Potrebbe essere così per tecnologie di apprendimento personalizzato o di assistenza sanitaria. La tecnologia è una leva importante di sviluppo, ma i Nobel di quest’anno ci ricordano che la definizione del suo indirizzo è il risultato dell’interazione tra potere e istituzioni.