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L'editoriale del direttore

Lezioni per l'Italia dai nuovi Nobel per l'Economia

Claudio Cerasa

Il premio ai tre economisti ci ricorda perché la libertà non si difende tutelando lo status quo ma cambiando le istituzioni: per frenare ogni deriva economica negativa e cogliere nuove occasioni di prosperità, è necessario adattare i sistemi di governo, di giustizia e di mercato ai tempi che cambiano

Ieri mattina è stato assegnato il Premio Nobel per l’Economia, lo sapete, e il riconoscimento è andato a tre economisti speciali, Daron Acemoglu, Simon Johnson e James A. Robinson, premiati dall’Accademia di Svezia per i lavori che hanno contribuito a far comprendere meglio quali siano le ragioni che, a parità di condizioni, rendono alcuni paesi prosperi e altri no. La risposta offerta da Acemoglu, Johnson e Robinson è complessa e articolata ma al centro del pensiero vi è un concetto forte. E’ la qualità delle istituzioni politiche che modella la ricchezza delle nazioni. E nei paesi in cui vi sono istituzioni fragili, in cui vi è uno stato di diritto debole, in cui la concorrenza viene penalizzata, in cui vi è un contesto dominato da una società “estrattiva” e non “inclusiva”, una società cioè che impedisce alle risorse di un paese di essere messe a frutto, si cresce poco, si spreca molto, si creano condizioni per alimentare una spirale fatta di povertà, di disuguaglianza e di decrescita infelice. Carlo Stagnaro e Marco Leonardi spiegano a pagina tre cosa significhi tutto questo, dal punto di vista economico. Ma come è evidente da sé, la ricerca dei tre Nobel offre spunti di riflessione utili anche per misurare la qualità del dibattito politico nel nostro paese. I paesi che non crescono come potrebbero sono dunque quelli che tendono a non avere istituzioni “inclusive”.

 

                     

E l’Italia, in questo senso, è un caso di scuola perfetto: un paese che da anni fatica a crescere come dovrebbe è un paese in cui inevitabilmente vi sono istituzioni poco inclusive. E per quanto si possa essere scettici rispetto ai tentativi di rendere le istituzioni più efficienti non si può mettere in discussione un fatto: chi vuole il male dell’Italia, chi lavora contro la sua prosperità, non è chi prova a cambiare lo status quo ma è chi prova a far funzionare, aggiornandolo, cambiandolo, modificandolo, un sistema istituzionale che non funziona più. Un paese può crescere e dunque prosperare e dunque creare maggiori opportunità e dunque combattere la diseguaglianza solo se vi è la volontà di intervenire sull’efficienza delle istituzioni, sulla difesa dello stato di diritto, sulla qualità della concorrenza e se si osserva l’Italia di oggi viene semplice dare ragione a chi sostiene che il modo peggiore di aiutare l’Italia è essere meno estrattiva è far finta che questi problemi non esistano.

Augusto Barbera, presidente della Corte costituzionale, sabato scorso, dialogando alla festa del Foglio, ha anticipato il tema e ha ricordato che non c’è nulla di fascista, nulla di autoritario, nulla di tirannico nel voler rendere più efficiente il nostro sistema istituzionale. “Fortunate le costituzioni che riescono a farlo, a non aggiornarsi, senza particolari traumi”, ha detto Barbera, per poi aggiungere: “Per quanto riguarda la forma di governo italiana, la mia opinione personale, e sottolineo personale, è che la forma di governo attuale sia una forma di governo in via di superamento. Sì: da superare”. Il sottotesto del messaggio del presidente della Corte costituzionale è lo stesso offerto dai tre Nobel: le derive di un paese, sia quelle autoritarie sia quelle economiche, si possono evitare non trasformando le istituzioni in baluardi contro il cambiamento ma adattando le istituzioni ai tempi che mutano, facendo il possibile per rendere i sistemi di governo più efficienti, per rendere la giustizia più equilibrata, per proteggere lo stato di diritto, per trasformare il mercato in un oceano di opportunità. Chi lavora in questa direzione aiuta il proprio paese ad allontanare le derive illiberali. Chi lavora in una direzione opposta aiuta il proprio paese a essere più illiberale. Non ci voleva forse un Nobel, anzi tre, per capirlo, ma la lezione dei tre Nobel può aiutarci a capire che differenza c’è tra un’Italia che prova a combattere uno status quo tossico e un’altra che lo status quo lo difende rendendo il paese meno inclusivo, più estrattivo e semplicemente più tossico.
 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.