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L'editoriale del direttore

Il buono, il brutto, il cattivo e la manovra. L'importanza di avere un ministro politico al Tesoro

Claudio Cerasa

I provvedimenti della nuova finanziaria non seguono una direzione demagogica, non andranno ad appesantire il nostro debito e aumentano gli stanziamenti sulla sanità. Ma fare la guerra ai profitti, anche per finta, è una pessima idea. E manca una scommessa sull'innovazione

Per provare a ragionare in modo non scontato attorno alla manovra può essere utile allontanarsi per un istante dal mondo della politica e avvicinarsi per un attimo al mondo del cinema e utilizzare per orientarci il grande Sergio Leone, con il suo “buono, il brutto, il cattivo”. Nel caso specifico, nel caso della manovra, il buono, cioè ciò che convince di più del testo approvato martedì sera in Consiglio dei ministri, è la direzione che per fortuna non è demagogica (grande idea quella di affidare il Tesoro a un ministro politico, unico modo per responsabilizzare anche i partiti meno responsabili). La pressione fiscale non salirà rispetto a quella attuale (resterà al 42,3 per cento, chi sostiene che invece salirà sta guardando la tabella sbagliata, quella della pressione fiscale a politiche invariate, anche se a voler essere onesti da un governo di centrodestra ci si poteva aspettare uno sforzo in più non per non farla salire ma per farla scendere), i provvedimenti non andranno ad appesantire ulteriormente il debito (che salirà nei prossimi due anni, per effetto di scelte pregresse, i bonus edilizi, e che inizierà a scendere fra tre anni), gli stanziamenti sulla sanità sono superiori sia rispetto all’ultima manovra (di 2,3 miliardi in più) sia rispetto all’ultima manovra di Draghi (all’epoca la spesa per la sanità era proiettata al 6,1 per cento del pil, ora sarà al 6,3), le scelte fatte sulle pensioni vanno in una direzione opposta a quella indicata dall’agenda Salvini/Vannacci (addirittura la manovra valorizza il fatto che la principale novità rispetto al passato non è il tentativo di aiutare ad andare in pensione chi vuole andarci ma è l’introduzione di “misure per favorire la permanenza al lavoro al raggiungimento dei requisiti di età per la pensione”).

Il brutto, se si vuole, è che la manovra non è ambiziosa: non scommette sull’innovazione (parola che in 38 pagine di testo compare tre volte), non offre elementi utili a stimolare la crescita (anche se in verità nella stagione del Pnrr i veicoli principali della crescita sono legati agli investimenti europei non alle manovre italiane) e soprattutto non dà continuità a una necessità indicata più volte dallo stesso ministro Giorgetti, che da due anni chiede al suo governo di aiutarlo a trovare un modo per tassare meno chi fa figli e che da due anni si ritrova sempre a presentare iniziative decisamente modeste sulla natalità rispetto alla crisi demografica del nostro paese (un miliardo e mezzo, sulla natalità, non è poco, ma di fronte a emergenze non ordinarie, come la crisi demografica, servono misure straordinarie, che in questa manovra non ci sono).

Il cattivo, invece, l’elemento più deprimente, riguarda un tema legato più alla logica della narrazione che alla logica dei fatti e quel tema ha a che fare con quello che è uno degli elementi maggiormente identitari della manovra: i sacrifici richiesti alle banche. Giorgia Meloni, due giorni fa, alla Camera, provando a ragionare sul tema dei sacrifici alle banche aveva sfidato l’onorevole  Fratoianni, dicendo: “Potrebbe scoprire (sulle banche) che questo governo ha avuto più coraggio di quello che ha avuto la sinistra quando era al governo”. Per fortuna, poi, le cose sono andate diversamente e quella che è stata presentata pomposamente come una punizione alle banche, come una punizione per gli extraprofitti che le banche avrebbero fatto in questi anni, banche che per chi non se ne fosse accorto dal 2017 pagano già più tasse rispetto ad altre società versando allo stato un’addizionale Ires del 27,5 per cento, di 3,5 punti percentuali più alta rispetto a quella ordinaria, in realtà altro non è che un prestito, a tasso zero, richiesto dal governo alle stesse banche. 

 

                       


Funziona così: le banche che in anni precedenti a questo hanno chiuso in perdita o hanno acquistato o salvato banche che hanno chiuso l’anno in perdita avevano diritto a detrarre questa perdita dalle imposte, la manovra ha sospeso le deduzioni nel biennio 2025/2026 e le stesse deduzioni verrano poi utilizzate e posticipate al triennio che va dal 2027 al 2029. Si potrebbe dire con un tono minimalista che siamo alle solite: un governo che a parole promette sfracelli e che nei fatti è più realista del re. Ma nel caso delle banche la storia forse è diversa ed è anche più preoccupante. Perché un governo che trasforma il fare molti profitti (gli extra) in un peccato da punire (oggi con una finta tassa domani chissà) non sta facendo esattamente tutto quello che potrebbe fare per attrarre coloro che investono in giro per il mondo non per fare beneficenza ma per fare per l’appunto profitti. Non si può dire che puntare agli extraprofitti sia un precedente creato dal governo Meloni (il governo Draghi, nel 2022, in un impeto populista, stabilì  una tassa straordinaria sui cosiddetti “extraprofitti” delle società dell’energia generati dall’aumento dei costi delle materie prime e due anni dopo quella norma è stata dichiarata parzialmente incostituzionale dalla Consulta, secondo la quale l’inclusione delle accise nella base imponibile “supera la soglia di ragionevolezza”). Ma si può dire che se c’è un neo che dovrebbe essere messo in luce in questa manovra quel neo coincide con la propaganda fatta dal governo Meloni contro i banchieri e contro la finanza. Propaganda che però non verrà denunciata da nessuno, o quasi, in Parlamento perché quando la politica si occupa di banche la corsa a inseguire il modello Fratoianni tende a essere più affollata rispetto a quella di chi prova a limitarsi a fare i conti con un incubo chiamato realtà. 

 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.