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L'editoriale del direttore

Ascoltare la gran rivolta del partito del pil contro gli osceni dazi di Trump

Claudio Cerasa

Imprenditori, agricoltori, artigiani, cooperative, sindacati, commercianti, chimici, farmaceutici, moda. Un appello alla politica (europea e italiana) per non chiudere gli occhi di fronte alle minacce americane. Girotondo fogliante

C’è una rivolta silenziosa all’interno del tessuto produttivo italiano, in quello che un tempo avremmo definito il famoso “Partito del pil”. Una rivolta silenziosa, discreta, ma decisa, il cui fine ultimo è quello di chiedere alla classe politica europea, e anche a quella italiana, di prendere sul serio le minacce americane, le minacce sui dazi, e di fare i conti con una realtà che potrebbe essere drammatica per il nostro paese. La realtà con cui occorre fare i conti con urgenza è una realtà di cui si è spesso parlato, in questi mesi, e che riguarda uno dei corni della poderosa, sfacciata e sincera battaglia che l’Amministrazione americana ha scelto di lanciare contro l’Europa per provare a sfidarla, per provare a dividerla, per provare a colpirla in uno dei suoi grandi punti di forza: le sue esportazioni, il suo commercio, il benessere economico delle sue imprese.

Il primo aprile, ha annunciato due giorni fa Donald Trump, scatteranno i dazi contro Canada e Messico.E pochi giorni fa il presidente americano ha confermato anche di voler imporre tariffe doganali del 25 per cento contro l’Unione europea, “sulle auto e su tutto il resto”. L’approccio scelto dal governo italiano, un governo amico non solo dell’America ma anche dell’Amministrazione americana, è stato un approccio prudente, per così dire. Giorgia Meloni, due giorni fa, ha detto che “una guerra commerciale non conviene a nessuno, neanche agli Stati Uniti”, ha rimarcato che sul tema del surplus posto dagli americani “si può risolvere in maniera positiva piuttosto che avviando una escalation”, ha promesso di voler affrontare il tema con l’Europa e con l’America aggiungendo che farà “di tutto” per difendere l’Italia che è una “nazione esportatrice”. Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri, ha detto che “le risposte sulle questioni dei dazi sono di livello europeo” e ha promesso che con i ministri “ne parleremo a livello europeo, dialogheremo e cercheremo di trovare le migliori soluzioni possibili per tutelare i nostri interessi in un rapporto transatlantico che non deve deteriorarsi”. Matteo Salvini, l’altro vicepremier, ha invece scelto di non prendere di petto il problema, ha affermato che il “contenzioso aperto vero è con con i tedeschi” e che “noi non siamo l’obiettivo di Trump”.

 

               

 

C’è stato un tempo, lo ricorderete, in cui il centrodestra italiano compilava lunghi elenchi per dire quali categorie avrebbe difeso una volta arrivato al governo. Uno degli elenchi più famosi era quello di Salvini, i cui comizi venivano sempre arricchiti da una lista di categorie che la Lega avrebbe voluto proteggere, costi quel che costi: “Artigiani, studenti, operai, commercianti, impiegati, pensionati, casalinghe, infermieri, poliziotti, disoccupati”

Abbiamo passato ieri un po’ di tempo a chiedere ad alcune di queste categorie i rischi concreti che potrebbero generare i dazi dell’amico Trump all’Italia governata dagli amici di Trump. E abbiamo anche provato a rimettere insieme quelle categorie che nel 2018 si incontrarono alle Ogr di Torino per chiedere alla politica di tutelare maggiormente le imprese. Era il famoso partito del pil: 3 milioni di imprese, 13 milioni di lavoratori, circa il 65 per cento della ricchezza prodotta in Italia e l’80 per cento del valore dell’export

La cornice del nostro ragionamento e del nostro piccolo girotondo ce la offre Luca Cordero di Montezemolo, manager, imprenditore, ex presidente della Ferrari, ex presidente di Confindustria. “Bisogna prendere sul serio le minacce di Trump sui dazi”, ci dice. “I dazi per le aziende italiane possono rappresentare un fatto molto grave. Bisogna vedere se poi Trump dalle parole passerà ai fatti. Ma già le parole indicano uno scenario pericoloso, da non sottovalutare, sul quale occorre aprire gli occhi con tempismo, senza pigrizia. Primo punto. Gli Stati Uniti per l’Italia sono il paese più importante per le esportazioni, dopo la Germania, e qualsiasi impatto sulle esportazioni, anche minimo, è un impatto rilevante per il nostro paese. Secondo punto. La sola idea che vi possano essere dei dazi in Italia rischia di creare un effetto pericoloso sugli investimenti in innovazioni e nello sviluppo: le aziende che hanno paura di perdere denaro in quello che è il secondo mercato più importante per l’Italia di fronte a una fase di incertezza possono scegliere di essere prudenti e quando si è prudenti purtroppo l’innovazione spesso diventa la prima vittima. Terzo punto. Le imprese italiane sono uno dei principali motori del benessere in Italia. E più le imprese verranno colpite più il benessere del nostro paese ne risentirà. E’ arrivato il momento di aprire gli occhi”. 

Aprire gli occhi, già. E allora vediamo cosa ne pensano le principali associazioni di categoria, interpellate ieri dal Foglio. Federica Brancaccio, presidente di Ance, è preoccupata per l’impatto che i dazi potranno avere sul mondo delle costruzioni: “L’industria delle costruzioni – ci dice – è una delle leve del mercato interno che con una manodopera fortemente concentrata sul territorio nazionale potrebbero rappresentare, ancora una volta, un forte antidoto alla crisi dell’export che deriverebbe dalla introduzione dei dazi americani. Ciononostante è indubbio che anche la nostra filiera avrebbe dei contraccolpi in termini di aumento dei prezzi e della difficoltà di reperire i materiali necessari”.

Maurizio Gardini presidente Confcooperative, dice che “Dazio chiama dazio”. E la mette così: “Ai tanti conflitti nel mondo si aggiunge la guerra dei dazi, che si somma a sua volta alla tempesta dei costi dell’energia e delle materie prime. I dazi di Trump rappresentano un conto pesante di almeno due miliardi di euro per l’agroalimentare italiano di cui le cooperative sono protagoniste dal momento che un prodotto italiano su quattro che arrivano sulle nostre tavole è cooperativo.

 

              

 

Bisogna preferire la strada degli accordi a quella del protezionismo. La politica dei dazi non conviene a nessuno”. Sulla stessa lunghezza d’onda è Simone Gamberini, presidente di Legacoop. “L’imposizione di dazi da parte degli Stati Uniti avrebbe conseguenze significative per l’agroalimentare italiano, in quanto le esportazioni verso gli Stati Uniti, uno dei principali mercati di sbocco per il made in Italy, subirebbero un calo, con impatti negativi, stimabili intorno al 20-30 per cento, in particolare nelle filiere del vino, dei formaggi dop, dell’olio d’oliva, dell’ortofrutta. L’impatto complessivo potrebbe superare i 2 miliardi di euro. L’aumento dei prezzi dei prodotti italiani potrebbe portare il consumatore statunitense a sostituirli con prodotti interni: non è certo un caso che ieri Trump abbia chiamato a raccolta gli agricoltori americani perché aumentino la produzione. Non vanno poi trascurati gli effetti negativi dei dazi sull’Automotive per il settore manifatturiero, ad esempio con danni, per ora difficilmente quantificabili, per le imprese della componentistica che già sono alle prese con la crisi del settore. Va poi considerato che pesa anche solo l’effetto annuncio, nel senso che la committenza potrebbe essere indotta a sostituire i fornitori italiani ed europei con quelli di altri paesi. Infine, per alcune nostre cooperative fortemente internazionalizzate che hanno impianti di produzione in Canada e in Messico potranno derivare danni dall’imposizione già decisa dei dazi su quei paesi”.

Sul tema dell’agroalimentare, Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura e presidente del Copa, l’associazione che rappresenta oltre 22 milioni di agricoltori in Europa, ha questa posizione:  “Le relazioni internazionali e gli accordi commerciali sono centrali per la politica agricola e in un contesto geopolitico incerto  il dialogo con gli Stati Uniti è fondamentale, anche di fronte alle minacce dei dazi di Trump. E’ necessario rinegoziare gli accordi internazionali, visto che il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) è fermo da tempo. Gli Stati Uniti sono il nostro secondo mercato di riferimento e i dazi sarebbero un danno enorme per il nostro agroalimentare: pensiamo a vino, olio, formaggi e prodotti trasformati molto richiesti sul mercato statunitense. L’Italia, inoltre è anche un importatore di soia, mais e carne bovina dagli Stati Uniti, il che potrebbe portare a un doppio danno. Confido che le diplomazie italiana ed europea riescano a trovare una soluzione prima del 2 aprile”.

Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, associazione di categoria non ostile al governo, chiede alla politica di aprire gli occhi e di ragionare sul tema prima che sia troppo tardi: “Un dazio del 25 per cento sulle esportazioni agroalimentari made in Italy negli Usa potrebbe costare ai consumatori americani fino a 2 miliardi di euro in più, con un sicuro calo delle vendite, come dimostrato anche dalla precedente esperienza nel primo mandato di Trump. Si tratterebbe ovviamente di uno scenario preoccupante, tanto più in considerazione dell’importanza che il mercato statunitense ha per le nostre produzioni agroalimentari. Per questo crediamo che debbano essere messe in campo tutte le necessarie azioni diplomatiche per scongiurare una guerra commerciale che danneggerebbe cittadini e imprese europee e americane. Secondo un’analisi condotta da Coldiretti su dati Istat, i dazi imposti durante la prima presidenza di Trump su vari prodotti agroalimentari tricolori hanno causato una riduzione del valore delle esportazioni (confrontando il 2019 con il 2020). La diminuzione è stata del -15 per cento per la frutta, del -28 per carni e prodotti ittici lavorati, del -19 per formaggi e confetture, e del -20 per i liquori. Anche il vino, sebbene inizialmente non colpito dalle misure, ha registrato un calo del 6 per cento”.

E’ della stessa idea Cristiano Fini, presidente di Cia, la Confederazione degli agricoltori italiani: “L’imposizione di nuovi dazi doganali infliggerebbe danni alle imprese e ai produttori,  mettendo a rischio un mercato florido per le nostre aziende. I nuovi dazi minacciati da Trump rischierebbero di far saltare l’11 per cento dell’export agroalimentare italiano, con un impatto economico devastante sulle eccellenze del made in Italy. Il rischio è ben peggiore rispetto ai dazi del 2019 che ebbero effetto solo per un anno e riguardarono formaggi, salumi e alcuni alcolici. Ad essere minacciati, stavolta, sono anche prodotti come vino, olio extravergine d’oliva e pasta e la durata del dazio Usa potrebbe riguardare tutto il mandato presidenziale di Trump. Al momento, si può parlare di un boom di vendite tricolori negli Usa per l’agroalimentare italiano, con 7,8 miliardi di euro e un +17 per cento sul 2023, che ha visto gli Stati Uniti scalzare, seppur di poco, la Francia dal secondo gradino del podio dei paesi di destinazione del nostro export agroalimentare”.

Così invece Micaela Pallini, presidente di Federvini: “Lo scenario, oggi, è estremamente preoccupante, essendo aggravato dalle persistenti tensioni politiche sempre più accese che stanno segnando una profonda frattura tra l’Amministrazione Trump e l’Europa. Il quadro politico è imprevedibile e le nostre imprese sono estremamente condizionate da un clima di incertezza che sta diventando pressante e ingestibile, ostacolando qualunque previsione e pianificazione del nostro business. Gli Stati Uniti continuano a essere il primo mercato di destinazione per i vini, i liquori e i distillati italiani. Il valore dei vini nel 2024 ha raggiunto i 2 miliardi di euro con una crescita del 6,6 per cento, gli spiriti si attestano sui 250 milioni di euro con una variazione positiva del 5. I vini fermi e frizzanti sono le categorie più vendute, seguiti dagli spumanti che registrano un valore di poco superiore ai 630 milioni di euro; tra gli spiriti, i liquori italiani sono i più richiesti dai consumatori americani con un valore pari a 228 milioni di euro. Già da questi dati, possiamo immaginare quanto l’applicazione di eventuali dazi americani possa avere un impatto sui flussi di export atteso che, in passato, i liquori italiani, tra il 2019 e il 2020, solo nel primo anno di applicazione del dazio americano al 25 per cento, hanno subìto una perdita del 40 per cento del valore, mentre i vini francesi avevano perso circa 400 milioni di dollari”.

Questo invece è Paolo Castelletti, segretario generale Unione italiana vini: “L’imposizione di dazi al 25 per cento anche sul vino comporterebbe una contrazione dell’export pari a quasi un miliardo di euro di export, a cui si aggiungerebbe la riduzione dei consumi domestici dovuto al calo del pil. Un danno economico immediato, ma che rischia di erodere la relazione con i consumatori americani anche nel lungo periodo, con effetti deleteri per l’intero comparto del vino italiano”.

Sentite anche Francesco Mutti, amministratore delegato di Mutti: “Vedere i dazi di Trump come un mero fatto economico credo sia estremamente riduttivo. E’ l’ingiustificata rottura dell’alleanza tra i mondi democratici e liberi, che nel tempo crearono un grande progetto comune. Poi resta la perdita della sana libertà economica, a cui l’Europa deve inesorabilmente essere in grado di reagire. Come unica, inevitabile, ma triste risposta”. 

Stefano Firpo, direttore di Assonime, sposta la questione su un altro orizzonte: “Il rischio più grosso è quello indiretto ovvero dazi che riducono il commercio internazionale e noi come paese export oriented rischiamo di essere fra i più colpiti. Fra gli effetti indiretti vi è anche il rischio che la Cina sposti molti dei suoi flussi commerciali dagli Stati Uniti all’Europa facendo una competizione feroce sul nostro export intra Ue”.

Daniela Fumarola, segretario generale della Cisl, la mette così: “Con il protezionismo non si vince. Mai. Una guerra commerciale tra le due sponde dell’Atlantico porterà solo macerie, isolamento, arretramento economico, della concorrenza, della qualità di prodotto. Con effetti estremamente negativi sul lavoro e sul tessuto produttivo di entrambi i blocchi contrapposti. Un mondo governato da queste logiche è un mondo meno cooperativo, più insicuro, più instabile e pericoloso. La speranza è che Trump torni indietro. In ogni caso, l’Europa deve attrezzarsi, rafforzando la propria sovranità industriale e accelerando la propria integrazione interna secondo la road map indicata da Mario Draghi”.

 

               

Maria Anghileri, vicepresidente di Confindustria e presidente di Confindustria Giovani, offre uno spunto ulteriore. “Cosa rischiano le imprese con i dazi di Trump? Ci danneggiano non solo i dazi effettivamente imposti ma anche e soprattutto l’incertezza. Questa politica di Trump è infatti più imprevedibile della precedente. Per prima cosa, i dazi rischiano di indebolire gli scambi dei prodotti anche nelle catene di fornitura, di deprimere l’accesso ai mercati, alzare i prezzi e ridurre i margini. Poi, generando ansia e incertezza frenano gli investimenti. Infine, le merci che non trovano più accesso al mercato americano cercheranno altre destinazioni, quindi l’Europa rischia di essere travolta dalla sovrapproduzione cinese”.

 

       

Secondo Riccardo Rosa, presidente Ucimu, l’associazione dei costruttori italiani di macchine utensili, robot, automazione, il punto è anche un altro: “Se direttamente le vendite di macchine utensili italiane potrebbero non subire particolari contraccolpi negli Usa, grandi consumatori di nostra tecnologia di produzione, è anche vero che gli effetti indiretti legati alla tassazione dei settori utilizzatori, a partire dall’Automotive made in Ue, potrebbero compromettere parte della nostra attività. Questo ci fa dire che all’Europa è richiesto, ora più che mai, un salto di qualità”.

Così invece Marcello Cattani, presidente di Farmindustria: “L’annuncio di dazi da parte del governo americano rappresenta un rischio concreto per le nostre aziende e per l’intera industria manifatturiera. Una misura che potrebbe però avere anche contraccolpi per gli Stati Uniti e per i suoi cittadini, con rialzi dei prezzi  e possibili carenze di farmaci nell’immediato. Ecco perché è fondamentale un’opera di moral suasion dell’Ue e del governo italiano, che molto sta facendo, per scongiurare uno scenario che non porterebbe vantaggi a nessuno. Abbiamo fiducia in Giorgia Meloni e Antonio Tajani affinché possano condurre l’Europa a una negoziazione positiva con gli Stati Uniti per tutelare l’industria farmaceutica, il maggior contributore manifatturiero dell’export italiano nel mondo di beni primari come i farmaci made in Italy che rappresentano uno straordinario mezzo di cura anche per i cittadini americani”. E ancora, ascoltate Francesco Buzzella, presidente di Federchimica: “Gli Stati Uniti rappresentano il quarto mercato di esportazione per l’industria chimica in Italia: normalmente il dazio statunitense applicato ai prodotti chimici è pari al 6,5 per cento, ma se dovesse aumentare, come si paventa, al 10-25 per cento, le barriere commerciali di fatto sarebbero più del doppio. Per quanto riguarda la chimica, l’attenzione è ora rivolta al rischio di dazi annunciati sui prodotti cinesi che comporterebbero un riorientamento dell’export dalla Cina verso il mercato europeo, aggravando la già forte pressione competitiva”. 

Secondo Marco Granelli, presidente di Confartigianato, “l’Italia sarebbe tra i paesi più colpiti dall’applicazione di dazi americani sui prodotti europei. Gli Stati Uniti rappresentano infatti il secondo mercato, dopo la Germania, per il maggior valore del nostro export, pari a 66,4 miliardi. Abbiamo calcolato che l’applicazione di dazi farebbe calare le nostre esportazioni per un valore di 11 miliardi. I più penalizzati sarebbero i settori con la maggiore presenza di micro e piccole imprese nella moda, mobili, legno, metalli, gioielleria e occhialeria che nel 2024 hanno esportato negli Usa prodotti per 17,9 miliardi di euro”.

La posizione del presidente di Unioncamere, Andrea Prete, permette di inquadrare un altro elemento. “Guerre, recessione tedesca e minaccia dei dazi statunitensi hanno già fatto risalire l’indice di incertezza politico-economica a livello globale, che ha raggiunto il suo massimo storico a gennaio scorso. E’ possibile che una parte delle nostre produzioni, per tipologia e per target di riferimento (la fascia medio alta della popolazione) non registrino un brusco crollo degli ordinativi nell’immediato. Però effetto incertezza e dazi finiranno anche per pesare sul commercio mondiale. E per l’Italia sarà un problema, considerando anche che il mercato statunitense è la seconda destinazione, dopo la Germania, del nostro export, di cui assorbe l’11 per cento”.

Secondo Serafino Cremonini, presidente di Assocarni, “eventuali dazi statunitensi, per quanto riguarda le carni bovine italiane,  non avrebbero alcun effetto in quanto non ci sono accordi tra Italia e Stati Uniti, semmai, qualora gli Stati Uniti dovessero decidere di colpire il settore agroalimentare europeo, temiamo le possibili ritorsioni dell’Ue nei riguardi delle carni bovine statunitensi che importiamo regolarmente. Una maggiorazione dei dazi su queste carni pregiate impatterebbe eccessivamente sui prezzi”.

Per Antonio D’Amato, imprenditore, ex presidente di Confindustria, presidente Seda International Packaging Group, presidente Fondazione Mezzogiorno: “Una cattiva notizia per l’Italia ma una pessima decisione per l’economia americana. I prodotti che l’Italia vende negli Stati Uniti sono prevalentemente di fascia medio-alta, alta o altissima, dove il valore del marchio Made in Italy e la sua unicità giocano un ruolo fondamentale. Piuttosto, il grave danno che questa offensiva commerciale di Trump sta determinando è nel rendere più difficile la ridefinizione delle regole del commercio a livello globale e del Wto. La ridefinizione delle regole del commercio globale è, infatti, una priorità sempre più stringente soprattutto per l’Europa, che continua a essere invasa da prodotti di provenienza asiatica, esportati da noi in pieno dumping ambientale oltre che sociale ed economico”. Anche il settore della moda teme fortissimamente l’arrivo dei dazi di Trump e chiede di prendere la minaccia terribilmente sul serio.

“I dazi – ci dice Luca Sburlati, presidente di Confindustria Moda – alla fine penalizzano gli scambi commerciali mondiali spesso ritorcendosi contro chi li ha applicati per primo. Ricordiamo che se in Europa abbiamo nei confronti degli Usa una bilancia attiva per quanto riguarda le merci, abbiamo una bilancia largamente passiva per quanto riguarda i servizi e gli acquisti di quei diritti di proprietà intellettuale che ogni giorno sottoscriviamo sulle varie piattaforme americane. Aumentando i dazi reciproci, perché credo che l’Europa sarebbe obbligata a farlo, ne avremo solo un danno per i consumatori di tutto il mondo e un aumento dell’inflazione globale. Mi auguro che non succeda. L’industria della moda oltre agli aumenti sui costi di spedizione quadruplicati negli ultimi 5 anni, sconta già dazi rilevanti (tra il 5 e il 25 per cento) sulle proprie esportazioni verso gli Stati Uniti, in particolare sui prodotti in cotone e un aumento ulteriore sarebbe oltremodo ingiustificato”.

“L’industria mondiale – ci dice Sergio Tamborini, ceo di Ratti e presidente di Sistema Moda Italia – e la moda italiana nel dettaglio, così come sono strutturate, fa sì che i dazi non abbiano effetti semplicemente su scala regionale, ma colpiscano globalmente le fasi produttive e distributive: a partire cioè dalle catene di approvvigionamento delle materie prime, per passare alla fase di confezione dei capi e, infine, influendo sul sentiment generale che schiaccia i consumi. In quest’ottica il nearshoring in Italia e nel bacino del Mediterraneo assumerà un significato sempre più rilevante e sarà vitale ricostruire intere filiere che tradizionalmente hanno fatto grande la tradizione manifatturiera in Italia”.

Il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, che nel 2018 era lì alle Ogr di Torino a chiedere al governo maggiore  attenzione a un tema importante: gli effetti dei dazi sul lavoro. “I dazi annunciati da Trump – ci dice Sangalli – rischiano di compromettere i rapporti economici tra Europa e Stati Uniti, senza un reale beneficio per l’economia americana e con potenziali impatti sulla crescita del pil europeo. L’Italia, in particolare, con un surplus commerciale di 43 miliardi di euro verso gli Stati Uniti, sarebbe tra i paesi europei quello maggiormente esposto. Le maggiori ripercussioni si avranno sulle imprese di alcuni settori in particolare – come l’alimentare, l’Automotive e la moda – con impatti negativi a lungo termine sui fatturati e sull’occupazione”.

E sul turismo? Anche qui i dazi possono creare problemi. Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi: “Che l’Italia abbia sempre avuto buoni rapporti con gli Stati Uniti è cosa nota. Degli Usa siamo amici, ma vale il detto: “Cicero pro domo sua”. E’ ovvio che ogni stato si muova nella direzione dei propri interessi. I dazi annunciati da Trump fanno bene all’America, forse. Per l’Italia invece questo tema rappresenta un problema non indifferente, in quanto rischia di gravare sulle imprese che esportano larga parte della propria produzione negli Stati Uniti. Al momento siamo di fronte più a una comunicazione sui dazi che non a una modalità definita. Ma possiamo solo augurarci che si trovi una soluzione sufficientemente efficace per far recedere l’America da questo suo intento”. La rivolta delle imprese, delle associazioni di categoria, del ceto produttivo è contro i dazi di Trump, non contro il governo amico dell’Amministrazione Trump, ma è evidente che la richiesta di attenzione che emerge dalle dichiarazioni che abbiamo raccolto indica una direzione precisa: non c’è da scherzare di fronte alle minacce di Trump, non c’è da perdere tempo, occorre muoversi, non farsi trovare impreparati, non sottovalutare il nuovo equilibrio e muoversi anche in Europa con la consapevolezza che per difendere l’interesse nazionale mai come oggi bisogna contrapporsi all’agenda dei nazionalisti americani.  

Matteo Zoppas, presidente di Ice, Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, aggiunge alla nostra riflessione un elemento ulteriore: “Non sono ai tavoli dove si trattano direttamente le scelte sui dazi, seguo però  con attenzione il loro impatto sul commercio estero del made in Italy. Siamo in una fase complessa. La questione è europea, seguita dal ministro Antonio Tajani con la diplomazia e dalla premier Giorgia Meloni, forte dei buoni rapporti con l’Amministrazione americana. Un dazio del 25 per cento avrebbe un impatto altissimo, ma serve attendere le decisioni definitive. Sul come, dove e quando. L’impatto, se confermato, colpirebbe soprattutto le commodity e una parte del lusso già in difficoltà per i prezzi elevati. Fare previsioni oggi è davvero azzardato. Come evidenziato dal tavolo avviato dal ministro Tajani raggruppando il sistema paese, Ice, Sace, Simest, Cdp, è cruciale attivare subito soluzioni concrete, agendo come sistema paese sia sugli Stati Uniti che su altri mercati strategici per non perdere di vista l’obiettivo dei 700 miliardi da raggiungere nel più breve tempo”. Schierarsi in difesa dell’interesse nazionale per arginare l’interesse tossico dei nazionalismi: se non ora quando? La rivolta c’è, è discreta e silenziosa, ma chiudere gli occhi sarebbe un errore mortale, per l’Europa e soprattutto per l’Italia

 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.