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Risiko bancario

Intrecci e guai. Perché Mediobanca è diventata contendibile

Stefano Cingolani

Oltre le Generali c’è di più. Cosa non ha funzionato, nella cattedrale della finanza, dopo la stagione di Cuccia

Perché Mediobanca è il pozzo di tutti i desideri? Sì, ancora adesso che non custodisce più i segreti del vecchio capitalismo italiano, quello estenuato dai fasti del miracolo economico. Ora che non c’è più il Centauro con il corpo pubblico, alimentato dalle tre banche dell’Iri, e la testa privata, come rispose Enrico Cuccia a Napoleone Colajanni, comunista liberal che lo incalzava in Senato nel 1978. Quel Centauro che ha protetto i poteri forti mentre diventavano via via sempre più deboli a cospetto di un potere, quello dello stato, tanto invasivo da controllare l’intero sistema del credito. Una spiegazione è evidente: la Mediobanca resta la prima azionista delle Assicurazioni Generali, “la cassaforte degli italiani”, ne determina le strategie, ne sceglie la plancia di comando. Vero, però il Leone di Trieste, per quanto grande, non detiene più le chiavi del risparmio: oggi chi possiede anche un piccolo deposito viene consigliato di impiegarlo in fondi americani o francesi (italiani allo stesso livello non ci sono); oggi anche Rosy Bindi compra azioni Tesla. 

 

        

 

Un altro argomento torna di attualità: Mediobanca è il fortino più volte assediato di quel nocciolo laico, liberale, massonico che da Giovanni Giolitti in poi ha fondato l’Italia industriale, insidiato prima dal fascio-populismo che ne aveva conquistato in parte i favori, poi dal sistema di potere catto-vaticano e catto-comunista sul quale si era retta la Prima Repubblica. Roma, dunque, si muove contro Milano; anche se nella storia le due capitali si sono spesso intrecciate (e quel che è successo nel passato non è detto ritorni sempre). Una terza chiave non ha a che fare né con il mercato né con lo stato (distinzione sempre più labile nel mondo post liberale nel quale siamo piombati), ma con quella che Luca Ricolfi ha chiamato “la società signorile di massa”, cioè con l’Italia dei rentier e la gestione della loro ricchezza, non con la creazione del profitto. Se è così, siamo di fronte al risiko della rendita in un’Italia che si prepara a una stagnazione se non secolare certo molto lunga? Tre ragionamenti, tre parziali verità sviscerate in un seminario che aveva l’aria di una seduta psicoanalitica alla Casa della cultura di Milano, storico tempio della intellighenzia di sinistra. 

Metti un pomeriggio di grigia primavera, giovedì 27 marzo scorso. Ci si riunisce per il terzo incontro di un ciclo sulla formazione delle classi dirigenti, inaugurato da Giuliano Amato, che si concluderà a fine anno. Il tema questa volta è finanza e informazione, in Italia intrecciate più che altrove (salvo forse che in Francia). In concreto si tratta della Mediobanca, del Corriere della Sera e della Repubblica. Al tavolo uno storico, Franco Amatori, docente alla Bocconi, e un banchiere, Pietro Modiano, al vertice di Unicredit prima e di Intesa Sanpaolo poi (entrambi organizzatori dei seminari), insieme a due giornalisti: Ferruccio de Bortoli, che il Corsera lo ha diretto, e Marco Panara, che alla Repubblica ha lavorato a lungo curando in particolare l’economia. In platea tra gli altri Alessandro Profumo, già amministratore delegato di Unicredit e del Montepaschi, Salvatore Bragantini, una vita nella finanza e commissario Consob, più diversi attori di quella che Rossana Rossanda (vera madrina della Casa della cultura milanese) avrebbe chiamato l’ala sinistra del capitale. 

Il dibattito vola alto tra analisi, ricordi, valutazioni di chi è stato protagonista. All’ordine del giorno non ci sono le vorticose battaglie bancarie in corso, ma sono nei pensieri di tutti e in un modo o nell’altro escono allo scoperto. Ce la farà la cordata Mps-Delfin-Caltagirone, nella quale il governo è ovviamente anche giocatore in quanto azionista del Montepaschi, a conquistare Piazzetta Cuccia e controllare le Generali? Che cosa accadrà all’assemblea del Leone di Trieste il prossimo 24, dove sono in concorrenza tre liste, quella di Mediobanca, quella di Caltagirone e in mezzo quella di Assogestioni (fondi di investimento) verso la quale convergono pezzi grossi come Intesa Sanpaolo, Poste, Mediolanum (azionista importante di Mediobanca, ecc.). Mentre proprio ieri l’Algebris di Davide Serra, azionista di Mps, ha scelto di appoggiare l’Opas su Mediobanca. Nel frattempo è sceso in campo un fuoriclasse, un attaccante di sfondamento come Unicredit guidata da Andrea Orcel, chiamato il Cristiano Ronaldo delle scalate, il quale  ha aperto ben tre fronti: le Generali dove è diventato socio importante dopo Mediobanca, Delfin, Caltagirone; Banco Bpm, del quale vuole il controllo, e la Commerzbank dove è già azionista numero uno

Orcel non è in Mediobanca, Unicredit ne è uscito del tutto nel 2019. Il controllo delle Generali è una palla al piede per Piazzetta Cuccia; è vero che fornisce una gran messe di profitti, ma impedisce di esercitare il mestiere per il quale Mediobanca è stata fondata da Raffaele Mattioli nel 1946: sostenere direttamente le imprese italiane, un compito che la legge bancaria nata nel 1933 impediva, memore della tragedia provocata dal vecchio incrocio tra banca e grande industria. La spiegazione è semplice, come ha sottolineato Modiano: una banca d’affari deve assumersi rischi anche elevati (per questo ha bisogno di un patrimonio ben solido e di una buona scorta di liquidità), una compagnia di assicurazioni invece è di per sé aliena dal rischio.

Cuccia ha cercato di tenere fuori la sua creatura dalle mire della politica, riconosce Bragantini. Si dice che suggerisse ai suoi dirigenti di tornare in giornata quando erano costretti ad andare a Roma. Finché il Centauro era in vita, o meglio finché è durata la divisione del lavoro tra credito pubblico e grande industria privata, il peso delle Generali non è stato così soffocante. Da quando la foresta pietrificata, come Giuliano Amato aveva chiamato il sistema bancario italiano, si è mossa con le privatizzazioni lanciate proprio quando Amato era al governo nel 1991, tutto è cambiato. Si sono aperte le porte alle banche d’affari straniere: il patto del Britannia è una leggenda nera della destra, ma Mediobanca l’ha alimentata anche perché non era stata invitata (“non abbiamo le scarpe da yachting”, disse Maranghi). Nello stesso tempo sono crollati come birilli i protagonisti del primo capitalismo: Cuccia li aveva salvati con ogni mezzo (anche ai limiti del consentito), ma non ce l’ha fatta a impedire la loro crisi. Così le Assicurazioni Generali sono diventate l’assicurazione sulla vita per Mediobanca.

Un’occasione per spezzare il cordone ombelicale e “liberare” la banca da un abbraccio sempre più soffocante, si era presentata nel 1999: il 21 marzo Unicredit lanciò l’Opa sulla Comit e contemporaneamente il Sanpaolo-Imi fece altrettanto sulla Banca di Roma. La Banca d’Italia era contraria, il governatore Antonio Fazio voleva solo la fusione tra Comit e Banca di Roma. Mediobanca considerò il tutto come un assalto per stravolgere il suo assetto azionario. Profumo e Modiano, che allora erano ai vertici di Unicredit, lo ricordano con rammarico. Si oppose Cuccia in nome della propria indipendenza e in un incontro con D’Alema ottenne un grande apprezzamento, anche se l’allora presidente del Consiglio gli propose di scegliere Mario Draghi come suo successore. L’asse della finanza cattolica, a cominciare da Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti, aveva un altro progetto: la Comit con la Banca Intesa che nel 2007 si sarebbe poi unita al SanPaolo di Torino, mentre Unicredit assorbiva Capitalia, la ex Banca di Roma. Cuccia ha bloccato il mercato, sostiene Modiano, è stato il Lord protettore degli azionisti (Pirelli, Olivetti, Fiat, Orlando, Pesenti, Marzotto, Lucchini e via via gli altri), non delle imprese, una tesi espressa molto tempo fa anche da chi scrive. E’ vero però che senza quella Mediobanca la grande impresa sarebbe già crollata negli anni 70 o forse persino prima.

Il rammarico è ancor più comprensibile se si dà un’occhiata a quel che è successo dopo la scomparsa di Cuccia. Il suo delfino Vincenzo Maranghi chiede aiuto a Vincent Bolloré, il quale si spende per sostenere il proprio mentore Antoine Bernheim alla presidenza delle Generali (Profumo ancora azionista di Mediobanca si schiera apertamente contro). Alla faccia dell’indipendenza. Maranghi si dimette nel 2003 dopo una dura battaglia con Profumo, con Cesare Geronzi alla guida della Banca di Roma e con Antonio Fazio governatore della Banca d’Italia.

A quel punto prende le redini Alberto Nagel, prima insieme a Renato Pagliaro, poi sempre più solo al comando e prova a trovare una nuova ragion d’essere. Dopo la crisi finanziaria del 2008 lancia CheBanca!, poi incappa nel crac Ligresti che pesa per un miliardo e 100 milioni di euro sul bilancio di Piazzetta Cuccia. Alla ricerca di una soluzione, Nagel tenta di concordare una buona uscita dei Ligresti e registra i loro desiderata su un foglietto di carta scritto a mano, un pizzino come verrà chiamato. Scoppia un putiferio, interviene l’onnipresente magistratura, Nagel estrae dal cappello la Unipol e si salva. La Fondiaria verso la quale Mediobanca aveva “una particolare affezione” (come disse Maranghi ai magistrati), fusa nel 2003 con la Sai e presa in mano da Salvatore Ligresti, dieci anni dopo passa alla compagnia che assicurava le cooperative rosse. Nel 2016 c’è la sonora sconfitta alla Rcs: Urbano Cairo sostenuto da Intesa conquista il gruppo che edita il Corriere della Sera. Poco dopo sfugge anche la Impregilo conquistata da Salini. Arriva così una nuova metamorfosi: il wealth management. Si tratta di gestire patrimoni di redditieri non di sostenere i capitali e gli investimenti delle imprese. E’ anche su questo che oggi mette le mani chi punta a Mediobanca e alle Generali. Legittimo, ma una speranza lo è altrettanto: si riuscirà ad andare oltre l’Italia dei rentier?

 

                       

 

Si dice che qualcun altro deve pensare agli investimenti e all’innovazione. In fondo lo stesso Cuccia rispondendo a Colajanni sostenne che “la banca degli inventori è destinata al fallimento”. Guardando quel che è accaduto poi nella finanza americana è stato cattivo profeta. Cuccia non era un “banchiere schumpeteriano”. Inventare e innovare spetta agli imprenditori, certo, ma chi li deve sostenere, forse lo stato che già si sta allargando a macchia d’olio e di partito, ma non riesce a qualificare la spesa riducendo quella corrente? Il fatto è che l’Italia resta priva di uno strumento che accompagni la trasformazione dell’industria manifatturiera dal mondo meccanico, nel quale ha dato prova di grande capacità anche dopo l’eutanasia del grande capitale, verso il nuovo mondo digitale dove sconta un forte ritardo e dove occorre una gran quantità di investimenti, accettando un elevato livello di rischio, si pensi solo a quel che serve per sviluppare e gestire l’intelligenza artificiale. Saranno i senesi del Montepaschi, una volta presa Mediobanca, a finanziare la riconversione, magari mettendo a dura prova il proprio patrimonio? E’ evidente che non spetta alle Generali, non è il mestiere dell’assicuratore. Attendiamo di vedere come finirà il risiko (anche) della rendita in attesa che cominci quello degli investimenti produttivi. Speriamo di non aspettare invano.