Editoriali
La triste parabola di Greenpeace
Lancia un appello per difendere i giornalisti dalle multinazionali dei fossili
Ci sarebbe da piangere, se le risate non fossero tanto crasse. “Giornata mondiale libertà di stampa, oltre venti organizzazioni scrivono alla Commissione Ue: ‘Serve una direttiva che tuteli media e mobilitazione dei cittadini da intimidazioni delle multinazionali dei combustibili fossili’”. L’appello campeggia sul sito di Greenpeace. È il triste epilogo della parabola, forse inevitabile, di un’organizzazione di idealisti nata con pochi dimostranti e un battello preso a noleggio e trasformata in megastruttura con un bilancio e uffici in una trentina di paesi. Patrick Moore, che ha fondato e diretto per quindici anni Greenpeace, ha scandito così la sua critica: “Promuovono la lotta di classe e l’anti globalizzazione che con l’ecologia e la scienza non c’entrano nulla”.
Come altro spiegare l’appello in cui si evocano intimidazioni ai giornalisti da parte delle multinazionali dei combustibili fossili? In Europa la libertà di espressione dei giornalisti davvero è minacciata. Ma è minacciata dai fondamentalisti islamici o da certe “democrature” dell’est, non certo dalle “multinazionali dei combustibili fossili”. E poi in verità basta aprire i giornali, accendere la televisione ed è facile accorgersi che è tutto un coro green. Al punto che persino Vogue inglese ha appena pubblicato un articolo in cui si domanda se fare un figlio non sia una forma di vandalismo ambientale, tanto è l’inquinamento da CO2 prodotto da ogni nuovo vagito. Aveva detto tutto il fisico e matematico Tullio Regge, che a proposito di Greenpeace parlò di “un ritorno al Medioevo malamente mascherato da operazione di salvataggio”.