Il premier Mario Draghi (LaPresse)

Editoriali

Lettera di Draghi a se stesso. I dieci anni del messaggio della Bce all'Italia

Redazione

Il 5 agosto 2011 la Banca Centrale Europea dettava a Berlusconi le condizioni per continuare a garantire l’affidabilità dei titoli di stato italiani. Cosa si è fatto e cosa no. Al premier manca un partito

I dieci anni della lettera inviata dalla Banca centrale europea all’allora premier Silvio Berlusconi (5 agosto 2011), nella quale si dettavano le condizioni perché la Bce continuasse a garantire l’affidabilità dei titoli di stato italiani presso gli investitori – non esisteva ancora l’acquisto da parte dell’Eurotower – stanno producendo testimonianze e interpretazioni. Rese più appetibili dal fatto che il cofirmatario di allora, Mario Draghi, presidente designato ma non ancora operativo della Bce, è oggi al posto che un decennio fa era di Berlusconi. Dunque è lecito chiedersi se il Draghi di dieci anni dopo stia dando retta al Draghi di dieci anni prima. E se nel frattempo qualcun altro gli abbia spianato la strada. Mario Monti, che fu insediato a capo di un governo di emergenza, ricorda di aver preso misure impopolari ma necessarie – su tutte, la riforma delle pensioni – ma di non aver mai accettato prestiti diretti dall’Europa come quelli che nel 2012 andarono alla Spagna per il sistema bancario.

 

Quando i prestiti vennero decisi Monti ne fu il più tenace assertore minacciando in caso contrario di non votare il bilancio comunitario. Ma non volle accettarli per l’Italia per timore di cedere sovranità nazionale. Forse sarebbe stato il caso di farlo, visti gli strascichi oggi incarnati dal Monte dei Paschi. Ad affrontare il problema fu poi Matteo Renzi con la trasformazione in spa delle banche popolari, riforma incompiuta per le resistenze locali da destra e del Pd. Renzi attuò anche un’altra parte delle richieste europee, la flessibilità e i livelli differenziati di contrattazione del lavoro, il Jobs Act. Abolì le province elettive e fissò i benchmark per la ripartizione dei fondi sanitari. Sotto questi aspetti l’allora dominus del Pd è stato, dopo Monti, il maggiore, e migliore interprete, di quelle richieste europee, necessarie non tanto all’Europa quanto a noi stessi. Ma come è andata a finire per entrambi lo sappiamo.

 

Conosciamo anche lo zelo con il quale i successori hanno tentato di smantellare il buono di quel riformismo. Il governo Cinque stelle-Lega era quasi riuscito nel colpo di grazia, con Quota 100, un attacco alla previdenza pubblica, e con il Reddito di cittadinanza, che ben lontano dall’avvicinarsi al ricollocamento attivo nel lavoro proprio su questo ha fallito, per ammissione del grillino presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Il patto Salvini-Di Maio prevedeva anche la non restituzione di parte dei crediti Bce, ignorando che nel frattempo, con Draghi, la Banca centrale aveva abbandonato il rigorismo del 2011, e l’Europa dismessa l’indole egemonica della crisi greca. Anche lì è ricomparso lo spettro di un default stile 2011, solo per “vedere l’effetto che fa”.

 

Per ritrovare il riformismo occorre saltare l’immobilista governo 5s-Pd e arrivare appunto a Draghi. L’ex capo della Bce sta tentando di salvare le riforme residue e attuare quelle mancanti. Con tutte le imperfezioni del non disporre di una propria base parlamentare. La riforma Cartabia non piace ai palati più esigenti, mancano la separazione delle carriere e si aspetta l’intervento sulla giustizia amministrativa. Le banche sono nuovamente nel guado, ma il sistema è molto più solido. Per la Pubblica amministrazione c’è la volontà di agire e la garanzia dell’ottimo Renato Brunetta. La concorrenza nei servizi locali ancora non esiste. Vedremo Roma, dopo ottobre.

 

Draghi può rivelarsi un Renzi col turbo, attuando di persona ciò che lui stesso chiedeva dieci anni fa? Nel suo inner circle ci sono due protagonisti di quell’agosto del 2011, Daniele Franco oggi ministro dell’Economia e allora dalla Banca d’Italia partecipe alla scrittura della lettera, e Brunetta, unico ministro berlusconiano di allora che capì che quello della Bce non era un complotto ma un’ancora di salvezza. C’è anche un favore popolare che ebbe anche Renzi, ma oggi con minor culto di sé. E c’è un sovranismo in netto declino, a cominciare dalla Lega. Mancano i voti in Parlamento. Questo la Bce non poteva prescriverlo allora e neppure oggi. Ma i più saggi nella politica e nelle istituzioni sanno forse cosa fare.

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