Editoriali
Il testacoda del dl “Anti delocalizzazioni”
Una norma che rischia di respingere gli investitori senza aiutare i lavoratori
Il governo sembra pronto ad approvare una legge anti-delocalizzazioni su proposta del ministro del Lavoro, Andrea Orlando (Pd), e della sottosegretaria allo Sviluppo economico, Alessandra Todde (M5s). L’idea sembrerebbe quella di rafforzare le sanzioni già previste dal decreto “Dignità” e, limitatamente ai marchi storici, dal decreto “Crescita”del 2019. Il motivo dell’intervento: i vincoli esistenti non hanno sortito risultato apprezzabile. La riforma prende spunto da una norma analoga approvata in Francia nel 2014, la legge Florange, che pure non pare aver prodotto particolari conseguenze. La ragione è semplice: a dispetto di quanto Orlando e Todde sembrano credere, per le imprese chiudere uno stabilimento non è un divertimento.
È, anzi, l’ultima spiaggia, a cui arrivano quando quel particolare sito produce perdite o comunque non è in grado di generare utili. Le bozze della norma paiono esentare dalle complesse procedure per garantire la continuità produttiva del sito solo quelle imprese che si trovano in una situazione di crisi economico-finanziaria. Il fatto è che, spesso, la decisione di dismettere un impianto serve proprio a evitare di arrivarci, in quella situazione. Se davvero ci fosse una soluzione a portata di mano – che consente di limitare contemporaneamente gli impatti sociali e le perdite societarie – davvero Orlando e Todde credono che l’impresa non la perseguirebbe da sola? Ma c’è un aspetto ancora più rilevante: quale impresa farà più una scommessa sull’Italia se, nel caso in cui le cose andassero male, si troverà costretta a farsi carico del futuro dei lavoratori oltre che delle sue stesse perdite? Si tratta di un testacoda logico: il moderno welfare serve a garantire un sostegno a coloro che perdono il lavoro. Chiedere alle imprese di disegnare un percorso di re-investimento o di outplacement dei lavoratori significa di fatto scaricare sui privati quello che è il cuore della funzione pubblica. Non è una manovra di responsabilizzazione delle imprese, ma una bandiera bianca da parte dello stato.