Editoriali
Il caso Arcuri è politico, non giuridico
Perché trasformare gli errori in reati è il contrario della giustizia
L’inchiesta sulle malversazioni che sono state riscontrate nelle forniture di materiale anti Covid coinvolge l’ex commissario Domenico Arcuri, al quale vengono contestati i reati di peculato e abuso di potere. Giorgia Meloni si dice scandalizzata per il fatto che la gran parte delle assegnazioni sia stata deliberata senza gare di appalto, e su questo si concentra in sostanza il procedimento. Ci si dimentica della situazione in cui quelle decisioni furono assunte: ad Arcuri, un economista esperto in investimenti, sono state affidate dal governo una serie di responsabilità impressionanti. Ha dovuto affrontare la pandemia, che in Italia si presentava allora più acuta che altrove, senza l’ausilio di esperienze altrui (eccezion fatta per quella cinese, ovviamente inapplicabile in una democrazia) e senza vaccini. Ha fatto quel che poteva, usando poteri straordinari che gli erano stati concessi dal governo.
L’abuso di potere quando il potere è quasi illimitato non ha senso. Caso mai si può discutere se fosse ragionevole caricare tante responsabilità su una sola persona, ma qui si tratta di una questione politica, non giuridica. Da una parte c’era il vantaggio dell’unità di comando, dall’altra la difficoltà oggettiva a esercitare contemporaneamente funzioni così articolate. C’è chi ha approfittato della situazione offrendo forniture, come le ormai celebri mascherine cinesi, lucrando indebite commissioni miliardarie. Arcuri era estraneo a questo malaffare, infatti l’accusa di corruzione è stata depennata. Avrebbe dovuto e potuto indagare e controllare, si dice, ma è evidente che, in quelle condizioni di assoluta emergenza, era impossibile. Sono stati commessi errori, anche gravi, sui quali è giusto riflettere, ma trasformare gli errori in reati secondo una selvaggia logica giustizialista è il contrario della giustizia, anche questa volta.