Editoriali
Il voto cruciale della Corea del sud
Si elegge il nuovo presidente, tra minaccia nordcoreana, Cina e populismi
In Corea del sud, decima economia del mondo e quarta d’Asia, si vota domani per il nuovo presidente e la campagna elettorale si chiude con due notizie. La prima è il settimo test missilistico della Corea del nord: lunedì è stato convocato un nuovo Consiglio di sicurezza dell’Onu per parlare della dittatura nordcoreana, perché secondo fonti d’intelligence internazionali c’è da aspettarsi provocazioni ancora più minacciose nei prossimi giorni (si parla di test anche nucleari). La seconda notizia riguarda il leader del Partito democratico, Song Young-gil, che ieri a Seul, durante un comizio, è stato colpito in testa con un martello da un uomo, che poi è stato arrestato.
Si chiude così una delle campagne elettorali più estreme e populiste della storia democratica sudcoreana, e la sfida alle urne è soprattutto tra due candidati, che dai sondaggi sembrano ancora testa a testa: Lee Jae-myung, candidato dei democratici attualmente al governo con il presidente Moon Jae-in, e Yoon Suk-yeol, candidato del People Power Party. Come Moon, Lee è un avvocato dei diritti umani, si definisce “un Bernie Sanders di successo”, è su posizioni aperturiste nei confronti della Corea del nord ma vuole più dialogo con l’America. Recentemente ha detto che tutta la crisi russa è colpa di Zelensky. Yoon Suk-yeol ha costruito la sua immagine sul conservatorismo di Trump, ha detto di voler abolire il ministero delle Pari opportunità, è a favore di uno strike preventivo contro la Corea del nord, è stato criticato quando ha mostrato particolare attenzione a certe pratiche vicine allo sciamanesimo tradizionale sudcoreano.
Comunque si chiudano queste elezioni, gli equilibri asiatici potrebbero cambiare radicalmente: se tornassero al governo i conservatori, Seul sarebbe più disponibile a un’alleanza con il Giappone e l’America contro la Cina, anche militarmente. Se si confermassero i democratici, Seul continuerebbe a navigare nel mezzo, tra Washington e Pechino, perdendo la centralità politica a cui ambisce.