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Editoriali

La lezione di Rep. su dossieraggio e deontologia. Con effetti surreali

Redazione

Il quotidiano ha affidato ieri la definizione del canone deontologico del giornalismo a Lirio Abbate, l’autore dei casi Capua, Crocetta e “Diari di Arafat”. Non molto diversi  dal “ciarpame” di cui si parla adesso
 

Repubblica ha affidato, ieri, la definizione del canone deontologico del giornalismo a Lirio Abbate. Con effetti surreali. L’occasione è stata determinata dal verminaio del dossieraggio e degli accessi abusivi di massa ai database, ben spiegato nella sua abnorme gravità dal procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo e dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone, che sta aprendo profonde riflessioni sulla professione giornalistica. “Occorre compiere un’azione di responsabilità – scrive Abbate –. Non siamo solo un canale che riporta acriticamente le news, e non possiamo essere la buca delle lettere di chi vuole strumentalizzare o mettere in pratica azioni destabilizzanti”. Giusto. Abbate poi ricorda le domande fondamentali che deve porsi il giornalista: “Con queste notizie chi me le fornisce mi sta usando? Quanto mi posso fidare dell’attendibilità della fonte? E dietro a questa storia che tipo di interesse c’è? Pubblicandole sarò parte, inconsapevole, di una manovra? Di un disegno strumentale?”.

La lectio magistralis di Abbate è  condivisibile, soprattutto quando dice: “Non si può pubblicare tutto il ciarpame che arriva sul tavolo di un cronista”. C’è però qualcosa che non torna. Abbate è il giornalista che rovinò la vita di Ilaria Capua, scienziata di fama mondiale, bollata sull’Espresso come “Trafficante di virus” da un suo articolo che riprendeva una vergognosa inchiesta vecchia di dieci anni della procura di Roma (pm Giancarlo Capaldo). Abbate è anche il giornalista che chiedeva le dimissioni del governatore siciliano Rosario Crocetta, sulla base di un’infamante intercettazione che non è mai esistita. Abbate è, inoltre, il giornalista che pubblicò in “esclusiva mondiale”, sempre sull’Espresso, i presunti “Diari di Arafat” che nessuno ha mai  visto e che erano pieni di falsità e affermazioni impossibili. Ciò che non si capisce nella riflessione di Abbate è se sia un’autocritica rispetto al passato o se pensi che quello che lui negli anni ha pubblicato sia granché diverso dal “ciarpame” di cui si parla adesso.

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