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Cosa ci insegna l'accordo tra Versace e Prada sulla moda del futuro (e sull'Italia)

Redazione

L'Europa, l’Italia e le sue famiglie imprenditoriali migliori, hanno mezzi e modi non solo per reagire alle turbolenze dei mercati che le politiche dissennate di Donald Trump le hanno inflitto, ma anche per riportare a casa un marchio dal prestigioso passato. Il lusso delle aggregazioni

La firma dell’accordo di vendita di Versace a Prada per 1,25 miliardi, closing atteso entro l’anno, lascia trasparire un paio di dinamiche e uno stato dell’arte nel sistema del lusso in particolare e della cultura e della società occidentali in generale che anche chi non si interessa di marchi e di moda dovrebbe annotarsi per i tempi a venire.

La prima: l’Europa, ma in questo caso l’Italia e le sue famiglie imprenditoriali migliori, ha mezzi e modi non solo per reagire alle turbolenze dei mercati che le politiche dissennate di Donald Trump le hanno inflitto e che non sarà certamente facile recuperare, ma anche per riportare a casa un marchio che, dopo essere stato offerto alla metà del decennio scorso un po’ a tutti, Lvmh e Kering compresi, era finito a far parte del gruppo meno adatto per recuperarne lo smalto, un conglomerato di marchi di fascia B e maison decotte, e che infatti vi ha perso soldi a bocca di barile, finendo per rimetterci oltre un miliardo rispetto al prezzo di vendita, oltre ad aver accumulato centinaia di milioni di perdite (21 solo nell’ultimo esercizio), comprese quelle che ora assorbirà dalla cessione, dichiaratamente cash free e debt free.

Come hanno detto il ceo di Prada Andrea Guerra e il responsabile della corporate social responsibility Lorenzo Bertelli nella conference call che ha fatto seguito all’annuncio, il turn around del marchio si prenderà il tempo necessario per essere portato a compimento secondo lo stile del gruppo, già esplicitato nella parabola di Miu Miu, ora il brand più profittevole e a maggiore crescita a livello mondiale, che non è quello dei fondi americani. “This is a long term journey”, hanno detto: un lungo viaggio durante il quale verranno messe in campo tutte le possibili integrazioni fornite dalla piattaforma del gruppo, ma non vi saranno mai sovrapposizioni. La prima nota positiva, hanno osservato, è stata aver trovato in Versace, al fianco di Donatella Versace che si è detta molto soddisfatta dell’accordo, l’ex capo della creatività di Miu Miu Dario Vitale, ma a dispetto di chi crede che la moda rispecchi le logiche del fantacalcio, quello che conta adesso è il controllo della filiera, della produzione e della manifattura, e qui arriviamo alla seconda dinamica.

Ha svelato Reuters, raccogliendo le indiscrezioni di alcuni dipendenti, che le fabbriche impiantate dal patron di Lvmh Bernard Arnault negli Stati Uniti per ingraziarsi Trump, in particolare un sito produttivo di pelletteria Vuitton dal nome fascinoso, Rochambeau Ranch, inaugurato poco prima della pandemia nel Texas, siano una fonte di guai sconfinata. Non ci si improvvisa artigiani e manifatturieri d’eccellenza, imporre dazi ai beni di lusso europei non trasforma gente abituata solo a comprare in creatori dalle mani d’oro (su Instagram gira da giorni un esilarante video prodotto dall’AI che mostra gente sovrappeso in tuta di ciniglia, cioè l’immagine che noi europei abbiamo degli statunitensi, intenta tristemente a fabbricarsi sneaker Nike). Proprio lo stabilimento del Texas, sembrerebbe il tallone d’Achille d’eccellenza produttiva di Vuitton, tanto da essere “costantemente classificato tra i peggiori per Louis Vuitton a livello globale, con risultati ‘significativamente’ inferiori a quelli di altri stabilimenti”. La scarsa dimestichezza con il fatto-a-mano avrebbe portato a danni economici e allo spreco “di ben il 40 per cento delle pelli”, circa il doppio della media più elevata del mercato.

La verità che Trump non vuole raccontarsi è che gli Stati Uniti di oggi sono gli stessi dei personaggi dei romanzi di Edith Wharton, smaniosi di Europa e dei suoi vestiti, della sua arte, dei suoi nobili da sposare per fregiarsi di un titolo da veri parassiti. Insomma, gente insicura di sé e dei propri mezzi; gente che fonde la pelle delle borsette che produce per nasconderne le imperfezioni. Gente che crede di sopperire al mestiere con i dazi. La terza dinamica. Mentre immaginavamo la faccia del venditore, il ceo di Capri Holdings John Idol, che atterrava a Milano per spuntare quei 250 milioni in più rispetto al miliardo che voleva pagare Prada e insomma non fare proprio la figura di quello che svende, abbiamo ascoltato con soddisfazione Bertelli parlare di integrazione verticale e con i toni dell’imprenditore navigato e abbiamo capito che l’affiancamento da parte di Andrea Guerra è giunto a maturazione. Ottima notizia, perché la filiera, il bene più prezioso dell’Italia manifatturiera, si mantiene anche con il passaggio generazionale. Nota a margine: è evidente che, nella confusione in cui sta sprofondando il paese di Trump, anche i suoi giornali, vedi il Wall Street Journal che si diceva certo dell’annullamento dell’accordo, abbiano perso un po’ il polso della situazione.

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