Barack Obama (foto LaPresse)

Le acrobazie del presidente Obama

Redazione
Seguendo l’adagio di Longanesi, Barack Obama non si è mai appoggiato troppo sui princìpi, per timore che potessero piegarsi. La sua politica estera, si sa, è un’incoerente giustapposizione di scelte indipendenti che di tanto in tanto il presidente ha l’ardire di chiamare strategia.

Seguendo l’adagio di Longanesi, Barack Obama non si è mai appoggiato troppo sui princìpi, per timore che potessero piegarsi. La sua politica estera, si sa, è un’incoerente giustapposizione di scelte indipendenti che di tanto in tanto il presidente ha l’ardire di chiamare strategia (salvo poi freudianamente incappare in qualche involontaria verità, genere “we don’t have a strategy yet”) ma sulla difesa della propria immagine politica, quella su cui si costruisce la legacy, ha fatto sempre tutto ciò che era in suo potere fare. E parte fondamentale dell’immagine che Obama coltiva con cura è quella del presidente che si chiude alle spalle le guerre, quello che accompagna l’America ideologicamente affaticata e afflitta da disturbi da stress post traumatico all’uscita di sicurezza dalle guerra, giuste o sbagliate che fossero in origine. Ci sono altri punti dell’agenda obamiana investiti di una certa carica simbolica, ma nessuna riforma sanitaria ha la capacità di penetrazione dei ragazzi che rientrano dal fronte per non ritornarvi mai più. Negli ultimi due giorni anche questa illusione obamiana si è schiantata contro il muro della realtà. Prima la Casa Bianca ha dovuto spiegare che il ritiro dei soldati dall’Afghanistan ha subìto un altro rallentamento, occorrono più forze per garantire quel minimo di sicurezza e addestramento delle forze locali che serve a non far sembrare l’operazione un disastro istantaneo. Questo per quanto riguarda la guerra che anche Obama considerava giusta.

 

Dalla guerra dell’Iraq, incarnazione di tutti i mali del passato, Obama si è già affrancato, salvo poi trovarsi costretto a bombardare Tikrit a fianco delle milizie sciite telecomandate dall’Iran, approfondendo una volta di più il coinvolgimento americano nel teatro di guerra che aveva promesso di chiudere per sempre. Obama, va notato, non si sta discostando dalla sua linea ideale per un improvviso e incontrollabile stravolgimento degli equilibri geopolitici dell’area, eventi esterni e indipendenti dall’America ai quali il presidente reagisce aggiustando le vele, come dice un’antica massima cara ai realisti. Le ragioni per cui Obama contraddice le sue promesse vanno cercate nella cucina politica di Obama, un luogo caotico dove non si trovano mai tutti gli ingredienti che servono.

 

[**Video_box_2**]La conduzione degli affari in Siria, in Libia, in Iraq, in Afghanistan, in Iran e altrove era idealmente finalizzata alla pace, ma praticamente ha generato altra guerra. Perché non basta gridare “andiamocene!” per uscire da una guerra. La chiamano exit strategy proprio perché la fase delicatissima dell’uscita richiede una strategia, non basta spegnere la musica e smettere di ballare. E’ per una lunga serie di mancanze strategiche che l’America di Obama si trova a bombardare lo Stato islamico in Iraq a fianco dell’Iran – al quale sarà permesso di tenere centrifughe nucleari a scopo civile, come no, nel contesto dei negoziati – e in Yemen aiuta i sauditi ad abbattere i ribelli  sciiti Houthi sponsorizzati da Teheran che hanno preso il controllo dello stato. A forza di ritirare truppe e disimpegnarsi, Obama si trova sempre più impegnato a fare patti con qualunque diavolo gli prometta un po’ d’immortalità.

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