Cogliere l'attimo in Libia
Il governo provvisorio formato dalle milizie a Tripoli, in Libia, ha licenziato il suo primo ministro, Omar al Hassi, definito dal portavoce del governo, in modo molto spiccio, “un fallimento”. “Non è capace di prendere decisioni”, ha detto, come hanno confermato quattordici ministri che in questi giorni avevano chiesto la sua fuoriuscita, dopo che si era scoperto che aveva falsificato i numeri del bilancio e stava finendo i soldi per pagare i salari, sempre in modo molto spiccio: o lui o noi. Al Hassi, un ex professore, era considerato un ostacolo anche dai diplomatici onusiani che da tempo stanno cercando di costruire una road map di stabilizzazione per la Libia: si era espresso a favore di alcuni gruppi legati ad al Qaida, aveva detto che il video dello Stato islamico con la decapitazione di un gruppo di cristiani egiziani rapiti in Libia era “un filmato falso in stile hollywoodiano”, non aveva mai fatto alcun passo nei confronti di un eventuale piano di pace, escludendo la possibilità di un governo di unità nazionale (gli unici legittimi siamo noi, diceva). La rimozione di al Hassi è stata quindi accolta con un certo sollievo: consolida quei piccoli, ma importanti, avvicinamenti che, per la prima volta, si stanno verificando tra i vari interlocutori libici, che sono tanti, dislocati in varie città, in guerra tra loro e su posizioni lontane. Tra Misurata e Zeitan, due poli di potere importanti, ci sono stati dei contatti, e ora la fuoriuscita di al Hassi fa pensare che questa sia una premessa per una nuova fase diplomatica con il governo di Tobruk, sostenuto dalla comunità internazionale.
I tempi però potrebbero essere lunghi. L’urgenza di un intervento di qualsivoglia natura non è più molto sentita, e la conferma dell’inviato dell’Onu Bernardino León per altri sei mesi – il suo mandato era scaduto qualche giorno fa – se da un lato fornisce continuità dall’altro preoccupa non poco le capitali europee, soprattutto quella italiana che, come è noto, sul fronte libico è molto impegnata. Con una deadline più vicina, le pressioni per arrivare a un accordo di unità nazionale e poi di transizione sarebbero state forti. In sei mesi invece il rischio è che la crisi diventi cronica, facendo sfumare anche le piccole speranze di questi ultimi giorni.