Bentornato Mattei. In Libia Eni è l'unica a pompare ancora petrolio e gas
Nella Libia divisa tra due governi, uno a est riconosciuto dalla comunità internazionale, e l'altro a ovest retto dagli islamisti, molti degli stabilimenti d'estrazione petrolifera sono stati abbandonati dalle compagnie straniere a causa delle precarie condizioni di sicurezza. L'unica che riesce ancora a estrarre greggio e gas dal paese è l'italiana Eni. Il Wall Street Journal ha scritto ieri che la compagnia guidata da Claudio Descalzi, a differenza dei rivali (la francese Total, la spagnola Repsol o l'americana Marathon Oil), riesce a garantire la sicurezza degli stabilimenti e del personale oltre che l'approvvigionamento del 10 per cento del fabbisogno energetico italiano grazie a un accordo stretto con le milizie locali. Se si fa eccezione per quello di Abu Attifel in Cirenaica, chiuso da oltre un anno, la gran parte degli stabilimenti collegati all'Eni si trova nell'ovest della Libia (oppure su piattaforme offshore) sotto il controllo delle milizie vicine al governo islamista di Tripoli. Così la produzione petrolifera della compagnia italiana, dall'inizio del 2015, è vicina al massimo potenziale con quasi 300 mila barili estratti ogni giorno.
E' il risultato della riproposizione della politica energetica pragmatica imposta da Enrico Mattei negli anni Sessanta, quando il "corsaro del petrolio" faceva affari con gli ayatollah e manteneva a distanza le "sette sorelle", le compagnie straniere concorrenti. "Eni is holding the stick in the midlle", Eni tiene il bastone dal centro, ha riferito un funzionario del governo libico al Wsj per riassumere la disinvoltura con cui la compagnia italiana, che opera nel paese da cinquanta anni, ha costruito un’efficace realpolitik che non guarda ai colori politici delle fazioni coinvolte dalla guerra. La strategia di Eni si basa su alleanze sancite direttamente con tribù e milizie, senza ricorrere a intermediari governativi. Secondo il quotidiano americano, nel nord ovest del paese l'Eni riceve il sostegno dei combattenti del Western Shield che appoggiano il governo islamista di Tripoli, mentre a sud ha assoldato combattenti della tribù nomadica dei Tubu. Sempre nel sud, a ridosso del Sahara, Eni usufruisce anche della protezione garantita dalle milizie di Zintan, che invece sostengono il governo di Tobruk, quello riconosciuto dalla comunità internazionale e rivale degli islamisti. Così, sempre secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, la pipeline che collega il complesso estrattivo di Mellitah (gestito da una joint venture con la statale Libya’s National Oil Co. Bonatti), dove si producono petrolio e gas, alla piattaforma di Bahr Essalam passa ad appena 7 miglia da un campo di addestramento di Ansar al Sharia, uno dei principali gruppi combattenti islamici in Libia. Proprio vicino a quella piattaforma, Eni ha recentemente scoperto un nuovo giacimento di gas.
A est le cose vanno diversamente e il governo di Tobruk attraversa una grave crisi di liquidità. Il presidente del Parlamento eletto ha confermato due giorni fa di aver varato un'ordinanza per aprire un conto in una banca del Golfo (probabilmente negli Emirati Arabi Uniti) dove versare gli introiti derivanti dalla produzione petrolifera entro le prossime due settimane. Lo scopo è quello di bypassare la Banca centrale libica basata a Tripoli e che, nonostante la sua formale neutralità nel conflitto, secondo Tobruk è facilmente influenzabile dalle pressioni degli islamisti della capitale. Secondo gli analisti, questo significa che le compagnie che intendono comprare il greggio prodotto nei nove terminal dell’ovest della Libia dovranno confrontarsi col dilemma di “chi è legittimato a trattare il petrolio”. Un caos che Eni continuerà a sfruttare.