Gli accordi vanno, gli ayatollah restano
Il regime degli ayatollah iraniani si sta impegnando per far rimangiare la gioia per l’accordo provvisorio sul nucleare anche a quella parte dell’occidente per cui le trattative di Losanna siano state un successo. Ieri il Washington Post ha annunciato che un suo giornalista, capo dell’ufficio del Post a Teheran e detenuto da nove mesi nelle carceri del regime, è stato accusato di spionaggio e di tre altri crimini gravi, tra cui “collaborazione con governi ostili” e “propaganda contro l’establishment”. Jason Rezaian è stato arrestato lo scorso luglio a Teheran insieme a sua moglie e ad altri due giornalisti, tutti e tre rilasciati sotto cauzione. E’ detenuto nella prigione di Evin, quella dove sono chiusi e interrogati i prigionieri politici, e in nove mesi ha potuto vedere il suo avvocato, scelto d’ufficio dal tribunale, soltanto una volta.
E’ stato l’avvocato a leggere il documento delle accuse e a darne nota alla famiglia. Rezaian ha dei problemi di salute che stanno peggiorando a causa della prigionia, in un sistema che il direttore del Post Martin Baron ha definito “kafkiano”. Durante gli incontri di Losanna, il segretario di stato americano John Kerry ha più volte sollevato la questione di Rezaian con i delegati iraniani, ma il giornalista ha doppio passaporto, e l’Amministrazione dice che non ha il diritto di intervenire. Ma anche così, le accuse tutte politiche (“assurde e volgari”, scrive Baron) contro un cittadino americano a pochi giorni dall’accordo provvisorio sono il modo con cui i falchi del regime cercano di far capire (a noi, ma anche agli iraniani che festeggiavano per strada la sera del deal) che niente è cambiato, e che il regime che noi abbiamo assurto al rango di interlocutore non toglie la sua maschera sanguinaria.