Abbiamo sbagliato tutto con la Cina? Mi sa di sì, dicono gli analisti
Roma. “How we lost China?”, come abbiamo perso la Cina? Questa domanda ha tormentato l’occidente per quasi un secolo. Per primo se lo domandò il presidente americano Harry Truman nel 1949 alla notizia che Mao Zedong e la rivoluzione comunista avevano conquistato il paese. How we lost China?, se l’è chiesto John Kennedy, se l’è chiesto George H. Bush, se lo sono domandato migliaia di analisti, e oggi chiedersi se e perché abbiamo davvero perso la Cina è tornato di moda, mentre Pechino, sotto il regno del presidente Xi Jinping, si prepara al vero balzo da superpotenza. Sulle isole Spratly, nel mar Cinese meridionale, la Cina ha ultimato da pochi giorni la costruzione di una pista d’atterraggio per probabile uso militare. Le isole sono contese tra molti paesi, tra cui il Vietnam e le Filippine, e quella della Cina è l’ultima mossa di una politica aggressiva di espansione. Eppure Pechino continua a parlare al mondo intero dell’ascesa pacifica e remissiva della potenza cinese. In politica economica, la Cina usa metodi e simboli aggressivi, ma appena pochi giorni fa il premier Li Keqiang diceva al Financial Times che Pechino non ha intenzione di mettere in pericolo l’ordine economico mondiale.
E’ uno dei problemi dell’avere a che fare con la potenza cinese: quasi mai le parole e le azioni trovano corrispondenza tra loro, e quello che l’occidente pensa della Cina è quasi sempre quello che la Cina vuole che pensiamo di lei. Così, “trattare con la Cina” è un problema mai risolto, che si è fatto pressante con la presidenza accentratrice di Xi Jinping ed è anche il titolo di un libro appena uscito a firma Hank Paulson, ex segretario al Tesoro americano. “Dealing with China” è l’ultimo di una serie di libri che trattano del problema dei nostri rapporti con la Cina, delle aspettative deluse e delle distanze incolmabili. Tra tutti, Paulson è il più ottimista, da ceo di Goldman Sachs e poi da ministro è stato al centro delle trattative più importanti degli ultimi trent’anni, chiama Xi Jinping e l’ex presidente Jiang Zemin “vecchi amici” ed è convinto che con la Cina si possa “costruire ponti”. Ma è l’ottimista Paulson per primo a non farsi illusioni sulle capacità di riforma di Pechino. La sua proposta è: coinvolgere la Cina rimanendo realisti sul carattere irriducibile del regime comunista, Pechino non accetterà mai l’ordine mondiale così com’è, servirà un lungo e difficilissimo adattamento.
Condivide il realismo di Paulson – ma con conclusioni molto più dure – Michael Pillsbury, che è stato consigliere sulla Cina di varie amministrazioni americane e che nel suo “The Hundred-Year Marathon” si definisce un “panda-hugger” (abbracciatore di panda) pentito. La Cina ha un piano egemonico, scrive Pillsbury, ce l’ha da sempre e l’atteggiamento cooperativo dell’America, che ha cercato di integrare Pechino nel sistema economico e politico, ha fatto il gioco di Pechino. Per questo Robert D. Blackwill e Ashley J. Tellis, due analisti del Council on foreign relations, in un saggio appena pubblicato, “Revising U.S. grand strategy toward China”, consigliano all’America di adottare una strategia di “contenimento” contro Pechino, simile a quella usata durante la Guerra fredda. E’ un cambiamento enorme rispetto all’ottimismo che circolava sulla Cina ancora pochi anni fa, quando l’occidente era convinto che l’integrazione economica, il rilassamento delle relazioni diplomatiche, internet avrebbero costretto il regime comunista a riformarsi. Lo si legge per esempio in un libro appena uscito e curato da William J. Holstein, “Has the american media misjudged China?”. Per 35 anni, si legge, i giornalisti occidentali hanno aspettato che il regime crollasse da un momento all’altro. Ma oggi è ancora lì, apparentemente più forte che mai, e anche per gli ottimisti la domanda non è più: quando arriva la libertà?, ma: come conviviamo con il regime di Pechino?