Con la Cina Obama accetta la resa (per ora), intanto coccola Abe
Roma. Per il presidente americano Barack Obama la Banca d’investimenti asiatica (Aiib) promossa dalla Cina per insidiare l’ordine economico americano non è poi così male. “Potrebbe essere una cosa positiva”, ha detto Obama martedì sera nel Rose Garden della Casa Bianca durante una conferenza stampa congiunta con il premier giapponese Shinzo Abe. “Lasciatemi essere molto chiaro e smentire il concetto per cui eravamo o siamo contrari al fatto che altri paesi partecipino alla Banca d’investimenti asiatica”, ha aggiunto. “Non è vero. L’osservazione che facciamo a tutti in queste conversazioni sulla Banca è: assicuriamoci soltanto che sia gestita nel modo migliore”. Il mese scorso, quando si diffuse la notizia che l’Inghilterra, primo tra i grandi alleati europei, aveva chiesto di aderire alla banca cinese, le indiscrezioni che il Financial Times raccolse da funzionari dell’Amministrazione americana avevano toni molto diversi, si parlò di delusione e di rabbia, e le fonti di Washington denunciarono “l’accondiscendenza costante” che l’Inghilterra mostrava nei confronti di Pechino, come a dire: gli alleati non si comportano così. Ma dopo l’Inghilterra hanno aderito la Germania, l’Italia, la Corea del sud, l’Australia, e si è visto molto presto quale delle due superpotenze avesse vinto questa partita. La sconfitta è stata così bruciante, e la sfida cinese all’ordine economico americano tanto notevole, che nell’ultimo mese decine di commentatori e analisti si sono chiesti se la vicenda non sia il segnale che l’America sta sbagliando tutto nella sua politica cinese. Così le dichiarazioni di Obama sono diventate una tardiva dichiarazione di sconfitta, che assumono tanto più valore perché fatte davanti a Shinzo Abe, il migliore alleato dell’America nella regione e l’unico che non abbia aderito alla Banca d’investimenti, nonostante le pressioni.
La settimana scorsa Abe ha parlato davanti al Congresso americano riunito in seduta plenaria, e il discorso – Abe è il primo premier giapponese a ricevere questo onore – è il culmine di una visita di stato che durerà una settimana, e che vuole essere la dimostrazione del fatto che l’America sa premiare chi le rimane fedele. Il grande tema d’agenda della visita di Abe è il Ttp, Trans pacific partnership, l’accordo di libero scambio tra 12 paesi che si affacciano sul Pacifico che l’America sta promuovendo con forza (e con difficoltà, come per la sua versione atlantica, il Ttip) e che è considerato il braccio commerciale del suo “pivot” strategico sull’Asia e sul Pacifico. La firma dell’accordo è vicina, hanno annunciato Obama e Abe nel tentativo di distogliere l’attenzione dalle magagne geopolitiche. La Cina non c’entra niente; il Ttp, ha detto Obama, non è un modo per contenere l’ascesa economica cinese. Ma i due leader non sono riusciti a togliere Pechino dal centro della discussione, e dalle trascrizioni ufficiali della conferenza stampa al Rose Garden si nota che Obama e Abe hanno sollevato l’argomento Cina 23 volte, quanto basta per sapere di cosa avranno parlato negli incontri riservati.
[**Video_box_2**]Davanti al Congresso americano, interrotto da alcune standing ovation, Shinzo Abe ha passato indenne la parte più difficile, quella dell’eredità del Giappone nella Seconda guerra mondiale, frutto di infinite polemiche in Asia e malumori in America (il premier ha parlato di “condoglianze eterne” all’America, e di “sostegno” alle scuse dei suoi predecessori). Poi ha detto che l’economia del Giappone sta per fare un “balzo quantico”, ma il centro del discorso è stato il Ttp, su cui i deputati americani dovranno votare tra poche settimane. Abe ha parlato del valore economico innegabile di un accordo, ha sottolineato soprattutto il suo valore strategico, facendo tornare immediatamente sul Congresso l’ombra della Cina. Abe e Obama sanno che nella strategia degli accordi commerciali Pechino ha un vantaggio, e hanno bisogno di ribaltarlo.
Dalle piazze ai palazzi